«La nostra famiglia è maledetta», dirà espressamente il fratello maggiore nel momento più cupo dell’imperfetto ma senza dubbio interessante Growing down, esordio al lungometraggio del classe ’77 ungherese Bálint Dániel Sós che trova la sua prima mondiale nella neonata sezione Perspectives della 75ma Berlinale. Un film che, nella claustrofobia del suo 4/3 desaturato fino al bianco e nero, non mette in scena solo un insanabile dilemma di coscienza, ma ragiona anche sui diversi gradi d’amore (di un genitore, di una neo-coppia, di una famiglia con e senza legami di sangue) e sull’amicizia, sul segreto che mangia l’anima e sulla reciproca fiducia fra gli esseri umani, sui confini fra verità e menzogna e sulle stratificazioni dei motivi per i quali dover compiere una scelta, sul senso di colpa e sulle cicatrici dei traumi passati. Sull’innocenza e sul delitto, sullo stigma sociale e sulle pressioni psicologiche, sull’inutilità crudele del castigo. Ma soprattutto sul punto di vista, forse reale e forse ingannevole, in ogni caso inevitabilmente parziale. Un punto di vista che può essere umano come lo sguardo da lontano di un padre dilaniato dalla (in)certezza e dal dolore, o magari meccanico come quello di una telecamera di sorveglianza di cui non si conosce la password ma di cui si può trafugare e nascondere la memory card, e inevitabilmente del cinema che tutto questo costruisce e a sua volta guarda e fa vedere. Un punto di vista il cui occhio si apre da qualche parte fra il campo e il fuoricampo, fra il vedere e l’immaginare, fra il sapere e il temere, fra la comprensione dell’ovvio e (forse) l’autosuggestione di un completo fraintendimento. Di certo fra la rabbia e l’affetto, fra la preoccupazione e il rimorso, fra la giustizia e l’istinto di protezione e sopravvivenza. Ma anche fra la necessità e l’errore. Del resto, che cosa farebbe qualsiasi padre vedovo che (intrav)vede l’amatissimo e fragile figlioletto di 12 anni, già da tempo traumatizzato e spesso nervoso fino alla perdita di controllo dal momento della dolorosa perdita della madre, che (forse, probabilmente, non può che essere così…) spinge in una piscina vuota (volontariamente? inavvertitamente? senza calcolare le conseguenze? o magari, come dice all’inizio, è davvero semplicemente scivolata da sola?) la (neo)sorellastra che da qualche giorno lo sta di fatto bullizzando, facendola finire in coma? Direbbe la verità, affrontandone le conseguenze, o mentirebbe per proteggere il figlio, affrontandone inevitabilmente altre? Di fronte a una colpa per cui, ancora bambino ma non più abbastanza bambino, la pena prevista è il riformatorio senza possibilità di sconto, si può solo continuare a negare a oltranza, inquinare prove, appunto decrescere. Scegliendo di mentire agli inquirenti incaricati dell’indagine e soprattutto alla donna che si ama e che ora molto più che comprensibilmente riesce solo a pensare a sua figlia che non si sta risvegliando in un letto di ospedale. Scegliendo di mentire a quella famiglia che si sta cercando di costruire e che invece nella nuova tragedia non potrà che sfaldarsi. Scegliendo di mentire ai compagni di classe che sanno e che cercano in tutti i modi di estorcere una confessione (o un’umiliazione, o magari un gancio nei denti) al bambino. Scegliendo di mentire dietro al pianoforte come nella palestra di boxe. Scegliendo di mentire quando serve anche a se stessi e all’evidenza, e al contempo inevitabilmente sentirsi profondamente sporchi e traditori per il proprio colpevole silenzio, tanto sensibili da una parte da dovere per forza essere ipocriti e un po’ cinici dall’altra, tanto preoccupati per il bene di un figlio fragile e scioccato che ora nega e ora invece confessa da dovere necessariamente mettere in secondo piano quello per gli altri se necessario fino a perderlo. Salvo magari rischiare, a un certo punto e proprio quando il castello di carte è crollato, di rendersi conto di avere sbagliato tutto.
È per questo che conta solo relativamente, per quanto non lo si possa negare o nascondere, che come detto in apertura Growing down (in originale Minden Rendben) sia un film tutt’altro che perfetto, destinato alla lunga ad esaurire ciò che ha da dire per stiracchiarsi, ripetersi un po’ troppo e infine sfaldarsi un po’ in un’ultima sezione forse non all’altezza dell’ottima parte centrale. Così come conta solo relativamente che il plot twist assolutamente fondamentale per ribaltare ogni discorso e magari mettere in filigrana la necessità di mettere in dubbio tutte le testimonianze oculari a partire dalle proprie, ovvero la perquisizione e il ritrovamento da parte della polizia delle immagini della telecamera di sorveglianza che inaspettatamente scagioneranno il piccolo co-protagonista le cui intenzioni non erano mai state in alcun modo violente, svelando la tragica fatalità e l’impressione sbagliata del padre che aveva visto troppo poco e lo aveva interpretato male, arrivi come una soluzione narrativa che in fin dei conti confligge un po’ con la sospensione dell’incredulità, perché se è perfettamente plausibile il furto da parte del padre di una scheda di memoria che era sicuro contenesse la prova della colpa del figlio, così come lo è il suo non riuscire a decriptarla perché non a conoscenza delle password della donna da cui si erano appena trasferiti, viene da chiedersi come mai la polizia abbia aspettato voci e violenze provenienti da scuola, denunce da parte di terzi e confessioni più o meno estorte a un ragazzino inavvertitamente manipolato, prima di rendersi conto della presenza di una CCTV di cui si era accorto anche il primo amico ospitato nella nuova casa. Eppure, come si diceva, tutto questo conta solo relativamente. Perché non può essere qualche limite narrativo che per risolversi da solo ha semplicemente bisogno di ulteriori fiducia ed esperienza, né ancor di più un elemento ‘giusto’ la cui assenza e ritrovamento si potevano semplicemente costruire e gestire meglio, a intaccare i tanti, tantissimi spunti di interesse e le stratificazioni morali, emotive, esistenzialiste, sentimentali e sociali, e quindi in qualche modo anche politiche, che il film di Sós mette brillantemente sul piatto, mai in alcun modo ricattatorio nel suo dramma e anzi spesso pronto ad alleggerirlo con una battuta o un momento di ironia surreale (o magari un immediato ko sul ring in cui «far vedere» al figlio come non farsi abbattere). Un film da difendere a spada tratta, pure con tutti i suoi limiti, tanto per la profondità multiforme delle conseguenze a cui spinge la coscienza umana tanto per il talento evidente di una messa in scena rigorosa ma mai asettica o in alcun modo giudicante, e anzi assolutamente vicina ai protagonisti nei loro atroci dubbi etici e nelle loro scelte sbagliate, nella loro lenta ebollizione e nel loro inevitabile punto di esplosione. Basterebbe in tal senso la potenza espressiva del montaggio alternato fra il padre che sfoga la sua sofferenza interiore al pianoforte, mentre a scuola il bambino viene preso di mira fra bigliettini con scritto «assassino» e bullismo nei bagni per il quale perdere la testa e reagire, oppure l’uscita infradiciato dall’autolavaggio quando il genitore non ce la fa più a tenersi tutto dentro e confida la storia che crede di sapere a un amico, finendo di fatto per coinvolgerlo e invischiarlo nel proprio senso di colpa, condannandolo a sua volta a dover mentire e a essere ipocrita nel continuare a fare finta di nulla. Così come basterebbe il momento topico che giunge dopo pochi minuti del film, con il concitato pianosequenza che segue il padre in giardino fino al bordo della piscina, per poi alzare la testa e vedere insieme a lui, solo per un istante e quasi ai limiti del campo, evitando con cura qualsiasi possibile esagerazione e infilmabilità morbosa (viene in mente l’inqualificabile incipit di Miss Violence di Avranas, ma solo per la capacità di tenerlo ad anni luce di distanza), un qualcosa di rapidissimo e scioccante e di cui è impossibile essere certi, l’attimo di una spinta-non-spinta e poi la doppia corsa fra sudore e lacrime, un’ambulanza da chiamare e un bambino che per primo non sa (più) che cosa sia successo. Istanti di un’autorialità magari non ancora del tutto matura ma già vera, pura, lampante, che scava in profondità all’interno del dilemma e di ogni sua possibile conseguenza, e che cerca una propria forma con cui ragionare sull’atto stesso di aprire gli occhi e di processare le immagini fino a confutare la coincidenza fra avere visto e sapere. Che poi, a ben vedere, è la differenza fra vedere distrattamente e (volere, sapere, imparare a) guardare, con umanità e comprensione. Guardare alla vita come al cinema, a un figlio come a uno schermo, al vero come alla finzione. All’uomo messo con le spalle al muro. Al tragico equivoco di chi ama.
Marco Romagna