GREENER GRASS (2019), di Jocelyn DeBoer e Dawn Luebbe
Tra i titoli di punta della sezione After Hours del TFF 2019, Greener Grass è il lungometraggio d’esordio (alla regia e alla sceneggiatura) di due attrici statunitensi, Jocelyn DeBoer e Dawn Luebbe. Da piccoli ruoli televisivi e online fino al Sundance, le due attrici hanno iniziato il progetto Greener Grass anni fa, con un cortometraggio omonimo nel 2015 diretto da un altro, tale Paul Briganti, un lavoro che presentava i presupposti del film di cui stiamo parlando tramite gag sconnesse – un breve lavoro divertente, ma che propone idee senza farle amalgamare. Nel 2017, le due hanno scritto, diretto e interpretato assieme un altro cortometraggio, The Arrival, che racconta dinamiche analoghe ma con uno stile e una storia più tradizionali. Considerato, dunque, quanto “sbilanciati” sono questi loro primi lavori, si può vedere un ampio margine di rischio nella costruzione di un Greener Grass più lungo al fine di proiezioni festivaliere in sala, ma invero è decisamente un film notevole. A partire dal fatto che DeBoer e Luebbe propongono un’estetica e una narrazione le cui ispirazioni sono palesi (John Waters, il primo Tim Burton, David Lynch, gli sketch di Tim & Eric) ma senza eccessi di manierismo, superati i primi minuti in cui gli intenti vengono dichiarati e ci si ambienta nel mondo che il film propone, l’esperienza del film diventa isterica e delirante. Un’overdose di colori pastello e di umorismo nonsenso, ma a che pro, per raccontare cosa? Nel cortometraggio del 2015, la storia vedeva le due protagoniste, Jill e Lisa, solo nel contesto delle partite a calcio dei loro figli, come pubblico. Chiacchierano del più e del meno e mettono in parole gli scompensi e le ipocrisie delle loro vite, ma non sembrano voler reagire, cambiare. Si danno corda a vicenda in una vita da persone mascherate, in cui tutto è assurdo e, apparentemente, non ci si può fare niente, se non provare, più o meno volontariamente, a rendere il tutto ancor più assurdo. Ma, nel corto, appunto, erano prevalentemente osservatrici, e noi spettatori osservavamo Jill e Lisa lottare con questa condizione, cercare di cambiare senza spostarsi. Non entravamo nelle loro vite, e perciò il cortometraggio sembrava semplicemente proporre una situazione, con un suo mondo, un suo conflitto e una sua logica, ma ancora senza gli strumenti per entrarvi. Greener Grass versione 2019 invece offre questo e altro, le vite dei personaggi sono ampliate, gli sketch sono dilungati, e in qualche modo strano l’eccesso non sembra quasi mai sfociare in un vuoto d’intenti, o in un nulla stilistico: il film è un debutto sullo schermo argenteo completo e potente, ed è giusto cercare di comprenderne il perché della sua qualità.
Il microcosmo stravagante e goffo creato dalle due registe è profondamente immersivo e già dalle prime inquadrature vi si entra e sembra difficile uscirne. È un mondo in cui regnano il conformismo e una visione materialista ed egoistica degli affetti, in cui c’è speranza per un futuro migliore ma nessuno si impegna per costruirlo. I valori, siano essi materiali o immateriali, sono sballati rispetto al procedere naturale delle cose, tutti indossano l’apparecchio fisso ai denti, i programmi televisivi trasformano le menti dei bambini nel giro di pochi attimi, le donne partoriscono palle da calcio, il divorzio diventa una moda e le persone si trasformano in cani senza che nessuno batta un ciglio. C’è l’occasionale «c’è qualcosa che non va», o qualche zoom su un volto accompagnato da un sound design distorto in classico stile lynchano, ma la storia procede come se la naturalezza ci fosse, come se dovessimo accettare questo mondo per la sua incredibilità e per la sua incredulità anche noi. Jill e Lisa, del resto, non sono personaggi con cui è facile simpatizzare, perché questo mondo coincide con la loro visione distorta, con la loro ricerca di una felicità attraverso dinamiche sociali malate, ma ci riusciamo, empatizziamo, viviamo le cose con loro e soffriamo e ci divertiamo con loro. Elementi ripugnanti o surreali fanno spesso capolino nella matassa del racconto, alle volte con lo scopo abbastanza gratuito di disturbare lo spettatore e farlo uscire dalla ‘comfort zone’ che il film vuole creare (e poi distruggere), e alle volte per creare un sottobosco perturbante che convive con la storia principale, come in Velluto Blu o in Polyester, per tornare ai registi succitati. E, certo, ognuno di questi elementi, fuori contesto, può sembrare casuale, un richiamo provocatorio e goliardico, ma nell’insieme, il collage è incredibilmente funzionale. La verità sta anche nel fatto che DeBoer e Luebbe, dopo l’iniziale successo del cortometraggio di Greener Grass, avevano immaginato un’espansione narrativa molto più ambiziosa, nella forma di un prodotto seriale – che avrebbe avuto il suo senso, considerando quanto vada di moda in USA l’alternanza di narrazione e sketch all’interno di storie ad ampio respiro. In tal modo, il mondo di Greener Grass sarebbe diventato qualcosa di estremamente ricco ma anche di dispersivo. Alla fin fine, la forma lungometraggio sembra giusta anche perché permette alle autrici di trovare un qualcosa su cui focalizzarsi, in mezzo al caos. Superato il blocco del mostrare le protagoniste solo come testimoni e osservatrici, le registe si mettono in scena portando in campo la vita privata, i feticismi e i litigi delle loro famiglie, satirizzando sull’ipocrisia di questa ricerca senza senso in un mondo altrettanto senza senso. Quindi subentra come nucleo l’antagonista, che è il vero filo conduttore per quanto appaia di fatto pochissimo, e che è un serial killer (come anche, con meno profondità d’intenti, nel cortometraggio) che vuole sostituirsi a Jill, indossare i suoi vestiti, ripetere le cose che dice, vivere i suoi drammi. Per quanto quindi si possa creare una situazione di competitività che disumanizza e viola i canoni della quotidianità in modo esternamente divertente, la possibilità di un’invasione e di una sostituzione apre le porte alla morte, alla sofferenza, alla comprensione (ma non all’accettazione) della presenza di qualcosa di ulteriore, un valore dimenticato, evanescente, che il finale rievoca in chiave quasi horror. È come se il mondo suburbano americano venisse occupato dalla civiltà della vergogna e invaso dall’impulsività dell’idiozia allo stesso tempo, e ciò non può che portare a una catastrofe. Ma anche alla vittoria di una delle due protagoniste, in questa agguerrita decisione di voler essere migliori.
Greener Grass è esilarante e sinistro, con uno sguardo femminile trucido e creatività da vendere. La macchina da presa si muove come sospesa in un sogno, con un uso dello zoom fluido e inusuale, e un montaggio i cui ritmi comici spesso vanno fuori dal tempismo ideale, ma praticamente sempre con successo. È un piccolo miracolo, divertentissimo e strambo in un modo che non sembra mai fuori luogo. O meglio, sembra sempre fuori luogo, ed eccentrico, ma in modo glorioso. L’inquietantissimo finale non può che alimentare la nostra, di speranza, da spettatori e appassionati, perché le due attrici sembrano davvero avere talento da vendere nel costruire un mondo, nell’interpretarlo, nel dare esso senso pur senza fornire troppo esplicitamente gli strumenti per crearlo. È drammatico, liberatorio e soprattutto profondamente libero, pur nella sua illusoria impostazione plastica. DeBoer e Luebbe sono pronte, forse, a essere nuovi nomi di punta nel panorama indie americano?
Nicola Settis