GRASS (2018), di Hong Sang-soo
Risale a poco più di un anno fa la notizia, che normalmente sarebbe di puro gossip ma nel caso del cinema di Hong Sang-soo si erge a vero e proprio senso dei film e a svolta nella direzione di una poetica, della relazione adulterina del regista, sposato, con la musa Kim Min-hee, attrice ben più giovane di lui con la quale già aveva lavorato in Right now, wrong then e sua attuale inesauribile musa. In seguito alla loro liaison, in un fragore mediatico che non si vedeva più o meno dai tempi di Ingrid Bergman e Roberto Rossellini, il mondo del cinema sudcoreano ha risposto compatto nei più facili moralismi, decidendo sostanzialmente di ostracizzare la “rovinafamiglie”, di rallentare il più possibile la sua carriera, di non farla più lavorare. Metaforizzava su questo, già alla scorsa Berlinale, On the beach at night alone, e sempre intorno a questo giravano a Cannes, fra triangoli amorosi e aperti riferimenti alla storia d’amor proibito con i nomi storpiati, The day after e ancor di più Claire’s camera. Non deve quindi stupire che anche Grass, nuovo gioiellino di 66 minuti che arriva sugli schermi della 68ma Berlinale inspiegabilmente relegato nella sezione Forum, continui nell’evoluzione sempre più autobiografica e metacinematografica del suo autore, e nella sua progressiva stratificazione verso campi semantici sempre più complessi e inaspettati. Certo, nel cinema di Hong Sang-soo ci sono sempre stati diversi spunti di metacinema e di autobiografismo, e anche nelle ultime opere, compresa Grass, sono sempre centrali gli incontri/scontri fra uomini e donne con tutti i possibili risvolti psicologici e narrativi del caso. Ma quello che, per lo meno fino a Yourself and Yours, è sempre stato un percorso autoriale di variazioni sul tema figlio di una sola ossessione totalizzante, del bisogno bruciante e ancestrale di Hong di interrogarsi sull’amore da fine antropologo sempre intento a indagare all’interno dei rapporti di coppia e dell’emotività umana, è ora un qualcosa di molto più autobiografico, legato al regista e alla sua musa, e molto più teorico, ancor più centrato sul punto, sul metodo e sulla funzione più intrinseca del suo cinema.
Ha passato oltre vent’anni a fare in sostanza sempre lo stesso film Hong, magari, come nel caso di Right now, wrong then, anche due volte all’interno di uno solo, andando avanti e indietro con minime differenze sul medesimo sentiero inseguendo un impercettibile cambio di espressione, un istante di sincerità, una variazione nel tono della voce, una risposta forse impossibile sul grande mistero della fragilità dei sentimenti. Con il nuovo frastagliato innamoramento di Hong e con la cassa di risonanza mediatica che ha avuto, il suo cinema ha mantenuto le sue forme linguistiche ma si è evoluto, è diventato ancora più personale, ancora più programmatico, ancora più (meta)riflessivo sul suo stesso senso. Non è più tempo di salire e scendere sempre la medesima scala come fa una delle protagoniste di Grass, o forse sì, bisogna continuare a farlo, ma facendo attenzione a spostarsi ogni volta di un passo. Bisogna continuare, sempre con le stesse forme rohmeriane, l’esplorazione di campi semantici che sono invece diventati più espansi, che non si accontentano più dell’amore e degli incontri, dell’alcool e della sfera emotiva di un protagonista non certo a caso quasi sempre regista, ma che analizzano con inedita compiutezza la finzione e la realtà, incrociano ciò che accade sullo schermo con il pubblico che lo guarda, si focalizzano sulla messa in scena come risultato e rielaborazione che non sarebbe possibile senza partire dall’osservazione. Era stato così per Claire’s camera, forse il film più bello di Hong nella sua durata di poco oltre l’ora e nella sua struttura metafestivaliera, girato in un pomeriggio o poco più durante i giorni del Festival di Cannes 2016, ed è così anche per Grass, che forse non a caso si estende più o meno sullo stesso minutaggio evidentemente congeniale a questo tipo di (non) narrazione fatta di dialoghi fitti e di lacrime che rigano i volti, nella quale l’attrice finirà per coincidere con il regista mettendone a nudo lo spirito e svelando come il confine fra creatore e pubblico sia spesso molto labile.
In un bianco e nero che ritorna all’estetica di The day after, la sempre bellissima Kim Min-hee è seduta al tavolino di un caffè di Seoul, china a scrivere al computer. Non è una scrittrice, non sa nemmeno bene quale sia il motivo per il quale sta picchiettando sui tasti e non ha intenzione di far leggere ad alcuno il suo scritto, però sente il bisogno di affidare le sue parole a un programma di videoscrittura. Quando le verrà proposto di prestarsi per un film – e quindi per il cinema – concedendo per qualche giorno uno sguardo sulla sua quotidianità, rifiuterà cortesemente quella che, nella sua timidezza, sentirebbe come un’intrusione, ma nel frattempo non può fare a meno di introdursi, guardarsi attorno, notare le cinque coppie che si avvicendano e si intrecciano nei tavolini intorno al suo, ascoltare le loro conversazioni traendone ispirazione, o forse, in un cortocircuito fra realtà e finzione, fra autore e spettatore, è lei stessa che crea ciò che le accade intorno. Ascolta, rielabora, trasforma in racconto, viene chiamata in causa, interviene, e poi torna in silenzio, a guardare il mondo che va avanti nei suoi continui stravolgimenti, nei suoi collegamenti impensati, nei suoi corsi e ricorsi. Hong Sang-soo lavora di paradossi e di identificazioni, fa coincidere l’attore con l’autore e poi con il pubblico, voyeur da schermo che non si fa alcun problema a entrare nelle vite e negli immaginari altrui, e nel frattempo ragiona più compiutamente che mai sul suo cinema, su una messa in scena talmente minimale da rinunciare ormai persino al colore, sui pianisequenza e sui movimenti di macchina, sugli zoom e sulle musiche che, da Schubert a Oh Suzannah, entrano a creare i picchi emotivi, e non certo in ultimo sull’ironia sorniona sempre pronta a deflagrare in pianto, e poi – forse – in nuovo sorriso.
Il cinema di Hong Sang-soo ha sempre avuto come centro il tavolino di un bar, luogo di incontro, di dialogo, di scontro, ma anche e forse soprattutto luogo di ascolto silenzioso, dal quale cercare di capire l’umanità e di tradurla in immagini, dialoghi, dinamiche affettive e umorali. Nella sua costante ricerca di archetipi e paradigmi, chissà quante delle situazioni e delle dinamiche messe in scena da Hong nel corso degli anni con il suo stile semplice e minimale provengono direttamente da conversazioni reali fra (s)conosciuti, origliate, che lo volesse o meno, dal tavolino vicino, magari figlie proprio di quell’ennesima bottiglia di soju, al contempo causa e soluzione di ogni male, depressione ed entusiasmo. Dietro alle allegorie, necessariamente, deve esserci la realtà: la compagna e attrice feticcio di Hong sta al tavolino, guarda e ascolta, magari prende appunti, proprio come Hong ha guardato, ascoltato e preso appunti, e proprio come noi, seduti sulle poltrone del cinema, costantemente invadiamo le vite o gli immaginari altrui, sbirciamo e origliamo, cerchiamo di ragionare e trovare un senso nell’avvicendarsi delle immagini, e magari siamo noi a prendere l’appunto su quella una frase che ci sembra chiave. Hong Sang-soo ribalta lo schermo di trecentosessanta gradi, e il pubblico diventa così una parte attiva del suo cinema, o meglio esprime una parte proprio dell’autore, il suo smaccato interesse per l’umanità, la sua curiosità – che poi è la stessa che ha subìto dall’opinione pubblica coreana agli inizi della sua relazione – quasi morbosa e forse spesso percepita come colpevole, senza la quale gli sarebbe però impossibile creare quegli interstizi sentimentali che dal 1996 porta sullo schermo con abissali e sublimi lucidità e levità.
Non per nulla, in Grass, sono quasi tutti legati al cinema. Ci sono almeno tre attori, chi depresso (sensazione che Hong ben conosce) e in bancarotta, senza più amici e senza più speranze, chi in ascesa con la possibilità di passare dietro alla macchina da presa. C’è la proposta come attrice che viene fatta a Kim Min-hee, c’è il piccolo proiettore della Keystone che spicca nel povero arredo del locale, c’è chi sta scrivendo una sceneggiatura ma è in realtà ben più interessato ai dettagli della vita di chi sta intorno, e poi c’è chi ha di recente perso la propria amata, e ora deve sopportare gli sfoghi di chi gli rinfaccia di averla trascurata fino quasi a incolparlo della sua morte. Così come più tardi, e con meno peli sulla lingua, sarà incolpata di «aver fatto bere fino alla morte» un uomo suicida da ubriaco un’altra avventrice, che di nuovo sta bevendo per cercare di superare il lutto, attaccata a quella stessa bottiglia immancabile nei film di Hong che, nei tavoli vicini, finirà per cementare un’amicizia prima a quattro e poi a cinque, con l’osservatrice solitaria, quella alla quale secondo il fratello «falliscono tutte le relazioni», finalmente invitata al tavolo. Nelle dinamiche in comune fra le diverse coppie Hong Sang-soo costruisce il suo cinema di minuscole ma sostanziali differenze, scandaglio di quelle infinite possibilità di ogni conversazione, di ogni emozione, di ogni sentimento. Tutti i personaggi, in un modo o nell’altro, sono suoi alter ego, rappresentano una parte di lui o della sua storia felice quanto rumorosa con Kim Min-hee, rappresentano la sua depressione e i suoi sentimenti, il suo malcelato fastidio nei confronti della gogna mediatica e produttiva nei confronti dell’amata, la sua conclamata passione per il soju e la sua osservazione degli altri esseri umani, e soprattutto rappresentano la sua necessità di scrivere per mettere in scena le sue soddisfazioni, le sue paure e i suoi dolori.
Grass, nei suoi litigi e nelle sue riconciliazioni, nella sua ironia e nella sua profondità, è perfettamente coerente con il cinema intimo e poetico di Hong Sang-soo, scritto in punta di penna e girato senza fronzoli, delicato quanto straordinariamente denso nella sua apparente semplicità di un’emotività sempre in bilico, eppure delinea nella sua filmografia un ulteriore scarto contenutistico e teorico, sintomo di una costante crescita autoriale e di un periodo di forse mai così sincera ispirazione. La finzione, nel cinema di Hong, nient’altro è che paradigma di momenti quotidianamente vissuti, sempre legata a doppio filo allo scorrere della vita e delle emozioni, sempre ancorata alla realtà e alla quotidianità dei suoi continui detour di anime aperte inevitabilmente all’amore, perché amor vincit omnia, l’amore vince tutto, l’amore vince sempre, specialmente quando travagliato, contrastato, litigioso. Grass, nella sua comicità straziata, è una continua combinazione di emozioni, nel quale l’amore può nascere dall’incontro come dal ricordo, nel quale i dubbi di una sorella nulla possono contro la tenerezza di un amore che sta nascendo, nel quale basta una parola fuori posto perché un dialogo degeneri, diventi litigio, diventi fiele, diventi rinfacciarsi anche il falso, e non sempre ci si riesca a chiedere scusa, ma molto spesso, per fortuna, sì. In fondo, i rapporti umani sono come fili d’erba, esposti al vento e alla pioggia, vulnerabili, mutevoli, a volte appassiti ma poi di nuovo rigogliosi. Quella stessa erba, la Grass del titolo, che chissà da quanto tempo continua a crescere nel vaso subito fuori dal locale e che, proprio come Hong Sang-soo e i suoi numerosi alter ego cinematografici, osserva e non parla, ma ascolta, capisce, soffre, rielabora e soprattutto ama.
Marco Romagna