GRANDEUR ET DÉCADENCE D’UN PETIT COMMERCE DE CINÉMA (1986), di Jean-Luc Godard
“La globalizzazione culturale è una forma di totalitarismo; la tv è totalitarismo, le persone che stanno 4 ore al giorno davanti alla TV sono vittime del totalitarismo. […] Le cinematografie nazionali non esistono quasi più. Decenni fa invece sono esistite e sono state il simbolo dell’identità nazionale del loro paese, penso al cinema tedesco prima di Hitler, a quello russo del ’17, al cinema italiano e francese del dopoguerra. La scoperta del cinema, per quelli della mia generazione, è stata la Cinémathèque di Parigi diretta da Langlois, che ci ha fatto vedere film e ci ha fatto scoprire altri mondi che pittura e letteratura non ci avevano fatto conoscere. Era la Nouvelle Vague. Ora i tempi sono altri.”
(Jean-Luc Godard, Cannes, 2004)
All’alba degli anni ottanta, Jean-Luc Godard appare come un uomo ancor più in evoluzione, estremamente deciso a riscrivere le coordinate del (suo) cinema. Dopo l’incidente, l’isolamento e la riflessione, è il tempo di tornare dietro alla macchina da presa per interrogare ed interrogarsi (su) ciò che sta rapidamente mutando sotto ai suoi, o ai propri, occhi. Già a metà degli anni settanta i primi embrioni di una traiettoria nuova (Numéro deux, Six fois deux, France tour/ détour deux dal ’75 al ’78) in bilico tra il video e la televisione, nell’essenza dei doppi. Lontano dallo spirito libero e rivoluzionario della Nouvelle Vague, ancora più lontano dell’estetica militante del Gruppo Vertov e della collaborazione in trincea con Gorin, il nuovo JLG fonda un altro collettivo nella periferica Grénoble (Sonimage), si trasferisce a lavorare nella sua originaria Svizzera con la compagna ed assistente Anne-Marie Miéville e inizia un percorso capace di riscrivere come nessun altro le coordinate della percezione dell’immagine, nell’epoca dell’avvento dei nuovi dispositivi. Sono gli anni dei grandi interrogativi, del rapporto tra cinema e pittura come tra autore e artigiano (Passion – 1982), della parodia metalinguistica sulla ricerca del senso (Prenom Carmen – 1983), della destrutturazione cattolica tra famiglia e lavoro (Je vous salue, Marie – 1984), dei piccoli progetti indipendenti (Détective – 1985) come dei lavori su commissione, e delle liberissime riletture contemporanee di classici più (King Lear – 1987) o meno (Soigne ta droite – 1987) dichiarati. Sono gli anni che portano al film, malinconico ma quantomai vivo, che chiuderà l’epopea più decisiva per l’evoluzione del mezzo cinema (Nouvelle Vague – 1990) e soprattutto gli anni che vedono gli albori della più grande e complessa opera di riflessione sulla settima arte e sul suo ruolo nel ventesimo secolo tra storia, cultura e politica (Histoire(s) du cinéma – 1988/98). In mezzo a tutto questo lavoro mostruoso, matto e disperatissimo, coagulatosi nel tentativo di comprensione di una realtà sempre più perversa e polimorfa, c’è Grandeur et décadence d’un petit commerce de cinéma (1986). Un film apparentemente minore, appartenente al contenitore televisivo francese (TF1) “Séire Noire”, spesso dimenticato e disperso all’interno di una delle filmografie più sterminate e stratificate della modernità. Un film che, ri-visto oggi, rappresenta un momento di lucidità estremo nel leggere le derive e le contraddizioni della nostra società dell’immagine. Tutto questo perché quelli erano anche gli anni delle nuove tecnologie video che cambiavano le leggi della rappresentazione come della riproducibilità tecnica, della televisione massificata che toglie respiro e fondi al cinematografo mettendo a rischio la sua stessa sopravvivenza, dell’esigenza di una riflessione sulla natura del mezzo (come dell’immagine) che indagasse la purezza della struttura e della sintassi di un prodotto audiovisivo, scarnificando la sovraesposizione continua dell’etere.
C’era una volta un regista di nome Gaspard Bazin intento a progredire nel lavoro del suo nuovo lungometraggio. Fermo tra claustrofobici provini infiniti ed estenuanti ricerche di finanziamenti, decide di affidarsi ad un produttore esperto. Jean Almereyda lo è (stato), a lui si devono grandi capolavori della storia del cinema anche se ora, con l’avvento della televisione, lui stesso pare essere in crisi. Nella surreale stagnazione della coppia, tra chi non riesce a creare e chi non riesce a finanziare, arriva un altra variabile impazzita dal nome di Eurydice (moglie del produttore), che dopo anni nell’ombra vuole finalmente diventare anch’essa una stella dei set. Almereyda cede alle voglie della compagna, ma Bazin rimane dubbioso, anche perché seduttore e consapevole che ciò potrebbe danneggiare maggiormente le possibilità della sua opera. Tra i due uomini si crea un gioco perverso, retto tra incomprensioni ed assurdità, mentre il film sopravvive di luce propria, evolvendo tra mille metamorfosi del suo (dis)farsi, affermando la sua impossibile dignità, superiore comunque a quella dei suoi padri. Apparentemente anche questo dovrebbe essere un adattamento (da un romanzo di James Hadley Chase), ma il testo è riletto a brandelli, decomposto e ricostruito attraverso un esperienza straordinariamente simbolica e metaforica. A partire dagli attori (le due icone Jean-Pierre Léaud e Jean-Pierre Mocky, rispettivamente Bazin ed Almereyda) e dai loro nomi di scena (il primo come padre spirituale, nume tutelare e teorico della Nouvelle Vague, ed il secondo come cognome reale – invece del posticcio Vigo – di quello che può considerarsi come uno dei principali ispiratori alla macchina da presa dei “giovani turchi”). La stessa Eurydice, la splendida Marie Valéra, trasfigurata sotto le sembianze di Dita Parlo; e infine lo stesso Godard che compare proprio come regista, sornione e autoironico (autoesiliatosi in Islanda, dove si vive molto meglio che a Parigi), anch’esso in un cortocircuito mutevole apparente, incapace di dare consigli, quasi come se fosse dubbioso del risultato riguardo il (suo stesso) film. Tutti questi personaggi, e anche il fantasma di Truffaut, a due anni dalla sua morte, paiono quasi anime alla deriva, costretti dall’inconscio a creare cinema proprio per fare un film. Figure in trincea perenne e costante che, tra mille errori ed incomprensioni, si ritrovano miracolosamente uniti a difendere la loro magnifica ossessione. Del noir, come del thriller, rimane soltanto l’ossatura sbilenca; il film è il film (ed È il film).
Grandezza e miseria, cinema e televisione, su queste due assi parallele (ma mai perpendicolari) Godard articola la sua riflessione metalinguistica. Gira su supporto elettronico video (Betacam) e nello stesso momento lo ridiscute. Anzitutto l’evocazione di una storia del cinema che ora viene a mancare (i manifesti di Chaplin e Tati, di Von Stroheim e Antonioni) attraverso la destrutturazione ossessiva di cosa il cinema può rappresentare oggi (la corsa al denaro, i provini, l’automaticità di un prodotto). Negli studi della Albatros sembra proprio il cinema l’unica componente che viene a mancare; il miraggio (sempre televisivo) de La Grande Illusione ne dimostra oramai l’alterità. La ripetizione continua e seriale delle audizioni assumono il corpus di una performance quasi istallativa, di una narrazione astratta e continuamente vorticosa (le frasi che gli aspiranti attori devono pronunciare di fronte al monitor – Faulkner e la difesa dei morti dall’attacco dei vivi). La pubblicità pare essere quasi la spaccatura di una frattura, gioca con le forme delle prove, e interruzioni, tecniche e di trasmissione (soprattutto cromatiche), sottolineandone la provvisorietà. E infine torna il nero, che copre tutte le immagini, le nega (siano essere ferme od in moto, velocizzate o rallentate). La moviola video è l’arma dei nuovi simulacri, il movimento di ogni manipolazione, l’affermazione del falso e della ricostruzione. Questa selva di simboli in cui siamo immersi (o forse fagocitati) è per Godard stesso il senso di una necessità che possa lavorare sulle origini come sulle forme, di una rivoluzione tecnica (dunque non solo tecnologica) che sta per riscrivere la grammatica essenziale di produzione e comprensione dell’immagine. La lotta è sostituita dalla memoria. Del JLG in trincea, del periodo programmatico e teorico, rimane solo l’esigenza di voltarsi verso un passato di cui è rimasto tra i pochi eredi (un omaggio a coloro che sono “morti in battaglia”); il problema dell’oggi è il preservare un percorso, in maniera amara quanto ironica, osservando quasi in maniera nostalgica e distaccata il rapporto tra società e immagini. Potrebbe tutto ciò segnare il canto del cigno di un arte? Probabilmente. L’autore ed il produttore si pongono quasi come fantasmi atti a vegliare la carcassa del cinema, preservare la sua agonia, ben sapendo che non vi è cura contro il cancro dell’etere. Loro stessi sono morti che camminano, omessi dalla contemporaneità o (peggio ancora) costretti a ricominciare come i comuni mortali proprio dai provini. Sarà invece lei (Eurydice, appunto, il primo e l’ultimo controcampo mancante) a regalare gli ultimi frammenti di emozione e di bellezza, fondendosi con la Parlo di Renoir, regalandoci un piccolo cortocircuito di questa apocalisse in cui possa ancora esistere l’immortalità. Parallelo a tutto ciò è il discorso di (estetica) politica dell’opera, un percorso logico (disseminato già più volte all’interno della sua filmografia), legato alla massificazione culturale congiunta quanto alla produzione o alla fruizione di un audiovisivo. La troppa libertà (economica) uccide l’opera, e forse l’autore (con la sua politica). Dunque questo film non è forse un film, ma una seme di un lavoro estremamente più folle e incosciente da interpretare anche nell’ottica di questo film. Sfilate di attori e colori, toni e musiche (addirittura Dylan e Cohen), corpi che si muovono fantasmatici tra ritratti passati e visioni future, secondo lo scorrimento di un banco montaggio come di una macchina da scrivere. Nella lettura più esposta a questo Grandeur et décadence d’un petit commerce de cinéma vive il primo embrione delle Histoire(s) che sarebbero arrivate al proprio compimento definitivo nel 1998. Qui ne vive la sensibilità, di ciò che si vedrà, ovvero del più importante pensatore per immagini che sia mai esistito, oggi ultimo eroe provvisoriamente vivo che continua un dialogo impossibile ed unico tra opere e uomini che lo (e ci) hanno attraversato. Adieu au Langage (così come il successivo Le livre d’image) è già lì, assolutamente non valutabile né criticabile, come un chiodo piantato nel futuro della comprensione, come archiviazione necessaria di una società che non possiede più controllo alcuno, attraverso un immagine che necessita di dimensioni altre perché ormai essa stessa non ne ha alcuna. Quando morì Truffaut, lo stesso Godard chiuse il numero dei Cahiers in lutto, mostrando come oramai non ci fosse più differenza tra l’esserci e l’esserci stati a fine secolo, lungo le macerie ancora infuocate del Novecento. Ora, per sua libera scelta e nel pieno delle sue facoltà mentali, ha deciso di morire anche ‘lo stanco’ Godard, lasciando almeno un lavoro postumo e l’immortalità di chi è stato troppo grande e rivoluzionario per andarsene davvero. Il cinema uccide la vita, la televisione uccide il cinema, la rete uccide la televisione (e sicuramente non sarà finita qui). Dove porterà questo gioco al massacro? Da nessuna parte probabilmente, ma Godard fa(ceva) finta di non saperlo. Un principe disperato e solitario, nel suo castello diroccato, a fabbricare e smontare immagini all’infinito. Quasi una condanna, o forse l’unica via per la libertà, come un Sisifo burbero e strafottente il cui masso ha la forma e il peso ancor più gravoso di un immagine. Ma in fondo, se esisterà una memoria del secolo appena passato (e ora davvero concluso) e una bozza di quello futuro, molto merito va proprio a lui.
Erik Negro