GOOD TIME (2017), di Joshua e Ben Safdie
I fratelli Safdie, dopo l’interessante passaggio agli Orizzonti veneziani di tre anni fa con Heaven Knows What, ripartono dal concorso di Cannes 2017 con il nuovo Good time, film che continua il loro discorso cinematografico scandito attraverso un gioco di linguaggio critico, estremizzato e compatto. Ben e Joshua Safdie, nelle forme del film di genere, tornano a interrogare realtà buie di un continente alla deriva, umanizzando il rapinatore e mettendo in scena l’indifferenza, o peggio la strafottenza, della società statunitense. C’è un tempo vorticoso, c’è uno spazio in un continuo ristrutturarsi, in cui la scrittura del film apparirebbe inizialmente come un’impalcatura in cui far sbocciare ed esercitare la stessa forma. I due fratelli (il doppio del doppio), il duro e l’autistico, si impelagano in una rapina surreale e abbozzata che non potrebbe in alcun modo riuscire. Proprio in questo momento il secondo viene arrestato, e al primo non resta che percorrere tutte le strade possibili per trovare i dollari di cauzione. Nell’impossibilità di trovarli, rimane solo la soluzione di liberare/far evadere dall’ospedale il fratello ritardato (finito lì per la durezza d’ambiente nelle carceri statunitensi) con un climax quasi astratto e vertiginoso che si perde in una notte qualsiasi dell’incubo americano, fra i vicoli più oscuri, gli appartamenti più sporchi e i colori delle luci al neon. Nulla va come dovrebbe andare, in una progressiva discesa nell’assurdo, nell’equivoco più tragico(mico), nell’errore continuo che alimenta l’adrenalina di una continua fuga. Il film si chiude nel luogo in cui si era aperto. Ed è il duro a finire in carcere, mentre l’autistico – quello vero, non lo sfregiato che gli somiglia che Pattinson per errore porta via dall’ospedale – torna dallo psicologo proprio dove il primo nella scena iniziale lo liberava dalla morsa di un’autorità che sembra divertirsi a mettere la sua disabilità con le spalle al muro, a trattarlo come un bambino. La circolarità emerge, in bilico, sui titoli di coda. E con lei emergono il trasporto, l’eroismo dell’antieroe, l’amarezza dello sconfitto che si accascia dopo un’interminabile corsa contro il destino.
Sterminato il campo delle citazioni di struttura e di suggestione, da Welles a Hitchcock, da Hill a Scorsese, da Ferrara a Shatzberg, da Michael Mann a John Landis, fino alla stessa desolazione del fallimento di vite che sottoindendeva anche molte delle esperienze B-Movies che giravano attorno alla New-Hollywood. I fratelli Safdie lavorano attraverso un cinema che, nelle sue apparizioni attuali, sembra oramai stanco per cercare una dimensione ancora embrionale e incompiuta, ma senza dubbio affascinante e coraggiosa: è un cinema sì di maniera, nel quale pompa però un ossigeno tutto nuovo, di afflato sociale e di rielaborazione. La forma è l’elemento che indubbiamente colpisce di più e determina l’osservazione composita del reale. I piani delle inquadrature sono più che mai vorticosi, i quadri strettissimi sull’azione, la macchina spesso a spalla e la fotografia, rigorosamente in 35mm, immersa nelle luci notturne sovraesposte e sfocate. Il montaggio è complesso e forzato, disegna direzioni improvvise e stratificate, codifica e ricrea l’esperienza narrativa iper(sur)realista non lasciando respiro anche allo spettatore. Allo stesso modo la musica, elettronica e astratta (Oneohtrix Point Never), pone l’accento sugli stacchi e sul movimento, sincopando la durezza della costruzione. Il film, nonostante sia continuamente destrutturato, rende partecipi ed attivi alle sequenze in cui i protagonisti cercando di esercitare il proprio diritto ad essere, incessante e adrenalinico fra il puro noir urbano, il melodramma, la commedia e il documentario di degrado sociale. Ci sono bombolette di gas rosso messe inserite fra le mazzette, ci sono assurdi scambi di bigliettini durante la rapina, ci sono inseguimenti mozzafiato, ci sono scale esterne, centri commerciali, attese, evasioni in carrozzella, inganni, ragazzine da baciare perché non riconosca i volti al telegiornale, automobili da prendere in prestito, recinzioni da saltare, poliziotti, manette, errori di valutazione. La trama ordita dai Safdie continuamente ricade su se stessa, tutto ciò che può andar male andrà peggio, in una progressiva discesa nell’incubo, nel (sur)reale di una società che abbandona i suoi figli che tentano umanamente di sopravviverle.
Perché quest’opera non vive di sola forma, anzi. Nell’apparenza retorica del puro intrattenimento, i Safdie, rappresentano anche una natura esistenziale di vite scomposte e lisergiche che combattono per la sopravvivenza nella giungla, malinconica e senza futuro apparente, di esperienze che compongono il campo di azione del film. Il rapporto tra il duro (un sempre più irriconoscibile e straordinario Pattinson, ancora vivo dell’esperienza plasmatrice di Cronenberg e di James Gray) e l’autistico (uno dei fratelli autori, il minore, Ben) disegnano uno spazio umano invisibile che cerca un introspezione posteriore e successiva allo scorrere instabile e distante del film stesso. Loro, in fondo, sono solamente alte due figure in un paesaggio buio e devastato (quello sì, disumano) dove la speranza (i “tempi buoni” del titolo) pare continuamente negarsi, perché probabilmente è l’ambiente stesso a influenzare i protagonisti (e dunque la forma), rendendoli meccanici ed unidirezionali nel fallimento di qualsiasi obiettività legata ai sentimenti. Rimane quasi un rimorso di possibilità infrante contro il destino che si intersecano con le forme così singolari ed audaci che il film si impone, come oggetto di libertà creativa. Good Time è un lavoro sostanzialmente molto più complesso di come potrebbe apparire, anche nelle proprie ossessioni quasi forzate, rivelando due autori che osano e da considerare come possibili speranze di un cinema americano spesso ingessato. Ma come potrebbe non esserlo dato la società che si ritrova?
Erik Negro