Good luck, buona fortuna. Perché serve molta fortuna ogni giorno, a chi parte dalla Serbia mineraria per scendere a oltre mezzo chilometro verso il cuore della Terra fra buio, scarso ossigeno e sudore, così come serve molta fortuna a chi non può fare altro che seguire un sogno forse d’altri tempi, quello della febbre dell’oro, bastonato sulla superficie del pianeta dal sole massacrante del Suriname e dall’incertezza di chi non ha un contratto di lavoro, ben conscio che la sua vita e quella dei suoi cari dipende esclusivamente dal caso, dalla presenza o meno di pepite nel suo setaccio. Le miniere sono il simbolo stesso del capitalismo e della disuguaglianza sociale, sono fatica fisica ai limiti dell’insostenibile e nelle condizioni più inospitali, sono il luogo nel quale i poveri vanno a sudare e a rischiare la vita per rendere i ricchi ancora più ricchi. Sono un luogo di sfruttamento, di sofferenza, di dolori sparsi per tutto il corpo, ma anche, forse, di speranza. Ma soprattutto sono, molto più semplicemente e ben al di là della loro potenziale portata paradigmatica, politica e sociale, un luogo ricolmo di uomini, nel quale la condivisione della stanchezza diventa amicizia, nel quale ogni giorno si sperimentano l’unione, il confronto, il farsi forza a vicenda. E di certo non mancherebbe il materiale umano, nel nuovo film del documentarista statunitense Ben Russell che giunge in concorso all’edizione numero 70 del Festival di Locarno, spartito in un doppio viaggio fra l’Europa e l’Africa che diventa percorso circolare, fatto di inizi senza una fine e di finali senza un principio, di volti che accendono e spengono la macchina da presa decidendo autonomamente quando e per quanto tempo inquadrarsi, di lavoro e di pause, di trivelle e di confronti, di motori da accendere e di qualcosa che parrebbe brillare in mezzo al fango. Peccato che, di tutto questo, al di là del titolo e dei “selfie” in pellicola di chi lavora – scelta potenzialmente interessante ma in questo caso tutto sommato furbetta, nel momento in cui mancano totalmente la vitalità e la sostanza umana dello sguardo –, a Ben Russell parrebbe interessare molto relativamente. Quello in cui Good luck si addentra, ben più che sulla vita, sugli struggimenti, sulla condivisione e sull’emotività di chi è mostrato, è infatti il campo semantico dell’estetica, dell’inquadratura, del “bello” anche a costo della sterilità, anche a costo di trasformare la perfezione visiva in una sorta di aggravante etica e umana. Il cinema, specialmente quello documentario, nient’altro è che un piccolo furto, un rubare l’istante, la realtà e l’emozione di chi è inquadrato, e se manca il cuore questo atto diventa di per sé una colpa, diventa ritrovarsi in sostanza a sfruttare dei poveracci per autocelebrare in maniera vacua e pretestuosa se stessi e la propria lingua filmica.
Basta un piccolo aneddoto per riassumere il limite insormontabile di Good luck, per far emergere il problema etico e di sguardo che rende quello di Ben Russell, pur visivamente ineccepibile nella sua doppia gestione in condizioni di luce opposte della pellicola in super16 e non certo privo di spunti di interesse nella sua struttura e nelle sue sospensioni della realtà, un “brutto” film, da dimenticare prima possibile. Ieri sera, alla proiezione alla quale abbiamo visto Good luck, era in sala con noi anche Wang Bing, a Locarno perché in concorso con quella vetta d’assoluto che è Mrs Fang e spesso spettatore in giro per le sale. Per un film, in questo caso, sulla carta enormemente nelle sue corde, incentrato sulle miniere alle quali, fra i campi di lavoro messi in scena in The ditch e il trasporto di carbone mostrato in Coal money, il grande regista cinese ha più volte girato attorno; un film fatto di pianisequenza, di molti rumori e di pochissimi dialoghi. Ebbene, dalle quasi due ore e mezza (perché poi così tanto?) di Good luck, Wang Bing è uscito ben prima della metà, prima ancora che il film di Russell, nel ritorno dei minatori serbi alla luce accecante della superficie, si trasferisse in Suriname. E non è affatto difficile capirne il motivo. Il loro è un approccio al cinema documentario totalmente opposto: Wang Bing, con mezzi rigorosamente poveri, cerca disperatamente l’amore, la sincerità, l’afflato umano; Ben Russel, con produzioni nemmeno tanto piccole e con folgoranti direzioni della fotografia in pellicola, cerca invece l’estetica, la simmetria, le figure che emergono dalla grana come in un quadro di Caravaggio, o che si stagliano come puntini nei colori della natura. È il confronto incompatibile fra l’approccio di un regista, o meglio di un umanista straziato, e quello di un videoartista, il cui lavoro sull’immagine finisce per anteporre se stesso e il suo stile a ciò che la sua macchina da presa va catturando. E questo, non solo per Wang Bing che è fuggito, ma anche per noi che invece il film lo abbiamo visto tutto, è un qualcosa di difficilmente accettabile. Tanto che le uniche due sequenze che davvero convincono del film, che riescono davvero a trasportare in quel mondo in sincerità – ci riferiamo al lungo pianosequenza in miniera che indugia sulle braccia impegnate nel trivellare una parete e a quello, altrettanto lungo, nel quale in Suriname viene seguito uno dei braccianti/cercatori impegnato a portare una fondamentale tanica di benzina per far funzionare i macchinari a motore – sono fra le poche che non sono state girate personalmente da Russell, ma dal suo operatore steadycam di fiducia. Durante le pause dal lavoro massacrante, quando i minatori si ritrovano a parlare fra loro in serbo e i cercatori d’oro, uniti dallo stesso costante scavare, nel dialetto africano creole, emerge il vuoto di chi non sa in sostanza osservare né ascoltare, con una serie di discorsi che si fanno via via più vacui, futili, “finti”, messi in scena, così come è messa in scena l’apertura sulla banda, o gli istanti di musica a metà strada fra il surreale e lo stereotipo. E il confronto inevitabile con Wang Bing, che più o meno con le stesse modalità di attesa ma con sguardo ben diverso, amorevole e interessato, ha forgiato nel 2008 le 14 ore in una piattaforma petrolifera nel deserto di Crude Oil, è semplicemente impietoso.
La dichiarazione di intenti di Ben Russell è chiara sin dal principio e verrà ribadita sul finale, con una serie di paesaggi che si alternano mentre al centro dell’inquadratura appare il cerchio della messa a fuoco che chiunque abbia avuto a che fare con una macchina fotografica reflex non può che avere perfettamente presente come centro del suo mirino. È quello il suo unico obiettivo, è quello il suo unico scopo: inquadrare una realtà senza viverla, registrare discorsi banali e restituirli senza che portino a concetti né a vitalità alcuna, mettere in scena, simulando realtà e curando l’aspetto visivo in maniera più che certosina (e indubbiamente talentuosa, ma non deve né può bastare in un film del genere, e anzi è un orpello pressoché irrilevante) negli orizzonti perfettamente diritti, nel fuoco che mai perde un solo dettaglio, nella luce di taglio che incornicia le figure degli uomini e nella saturazione dei colori impressionati sull’emulsione a 16mm. Good luck si traveste, non senza ipocrisia, da film antropocentrico, fatto di lavoro e di autoritratti del Popolo, fatto di paure politiche e di effigi di Tito ancora conservate sotto terra, fatto di videogiochi e di falò, e nei primi minuti riesce persino a ingannare lo spettatore catturandolo con la sua indubbiamente magnetica estetica. Inevitabilmente però, con il passare dei minuti, questa cura fotografica rivelerà di non voler portare da nessuna parte se non a se stessa. Dal film di Russell non emerge alcun cuore, non emerge alcun intento di mappatura individuale, non emerge alcun respiro umano, nemmeno quando rifà Jean Rouch nelle danze africane, nemmeno quando rifà il Leos Carax di Holy motors negli stacchi musicali con la fisarmonica. Gli uomini sofferenti e sognanti sono ridotti a una, o meglio due, masse informi, privati dei loro nomi e delle loro personalità, privati della loro vita al di fuori dell’ambiente lavorativo e delle loro aspirazioni, privati dei loro cari e dei loro percorsi esistenziali. C’è solo l’immagine, l’estetica, la tecnica più che mai vuota di una confezione impeccabile che non contiene altro che la sua stessa arroganza. Mentre dall’altra parte dello schermo, fra chi guarda, c’è solo un prurito, un sincero fastidio, quasi un imbarazzo nel guardare attraverso questo occhio che, anche quando si spinge di molto sotto terra, rimane in realtà ancorato alla superficie, come se fosse uno scintillante fumo lanciato negli occhi dello spettatore pur di non non addentrarsi nella profondità umana ed emotiva di chi sta davanti alla macchina. Certo, da questa ricerca costante di estetica e linguaggio non manca di venire in luce anche qualcosa di sinceramente interessante, fra la struttura e la potenza lirica delle immagini, fra la centralità del punto di vista e il ruolo del non-attore che si affianca all’osservazione. Questo però, nel momento in cui serve solo a pornografeggiare sul dolore altrui, scialacquando l’intimità di ben due realtà e di innumerevoli esseri umani, non solo non basta, ma finisce per irritare profondamente. Come se, sull’ascensore che porta all’inferno e poi riporta alla luce, la macchina da presa di Russell non ci fosse mai salita, preferendo una distanza museale, preferendo ammirare se stessa allo specchio, urlando tanto forte al mondo la sua bellezza da non rendersi conto che anche i fiori più colorati, se non hanno acqua e terra a nutrirli, non possono far altro che appassire.
Marco Romagna