GODLESS (2016), di Ralitza Petrova
Quando scorrono davanti ai nostri occhi i titoli di coda di Godless, lungometraggio d’esordio della regista bulgara Ralitza Petrova presentato un paio di giorni fa come penultimo film del concorso locarnese e colpevolmente recuperato solo nel primo pomeriggio di oggi sui computer della Video Library, è probabilmente ormai troppo tardi per poterlo davvero giudicare lucidamente e senza condizionamenti. Sono infatti già passate le fatidiche ore 15 dell’ultimo giorno di Festival e, come da tradizione di Locarno così piacevolmente rilassata e così lontana dal glamour blindato dei tre Festival maggiori, è appena stato reso pubblico, sei ore prima della cerimonia di premiazione che avrà luogo stasera e dopo la classica serie di rumors più o meno campati per aria, il Palmarès ufficiale di questa edizione. Un Palmarès che, a sorpresa, vede proprio Godless premiato con l’ambito Pardo d’Oro, premio principale del Festival andato negli scorsi anni, tanto per rimanere alla gestione Chatrian, ad autori del calibro di Hong Sangsoo, Lav Diaz e Albert Serra. Quest’anno invece per decidere il vincitore del Festival, complice anche, probabilmente, l’esiguità di nomi altisonanti nella competizione principale – con Beduino di Bressane relegato in Signs of Life e O cinema, Manoel de Oliveira e eu di João Botelho presentato fuori concorso, i nomi più affermati di un Concorso Internazionale particolarmente votato alla ricerca erano probabilmente quelli di João Pedro Rodrigues, giustamente premiato per la miglior regia con il suo O Ornitólogo, e quello di un Radu Jude altrettanto condivisibile Premio Speciale della Giuria con il suo Scarred Hearts (anche se in realtà ci aspettavamo il film rumeno proprio come Pardo d’Oro, auspicando invece il Premio Speciale della Giuria al grandissimo film estromesso da questo elenco di vincenti, le Correspondencias di Rita Azevedo Gomes) – la giuria presieduta dal cineasta messicano Arturo Ripstein si è mossa in direzione opposta, tributando il premio più ambito a un’opera prima e non a un grande nome da, finalmente, sdoganare. Una scelta destinata a far discutere, una scelta sulla carta coraggiosa quanto opinabile alla luce della buona rosa a disposizione, una scelta che ci porta, e qui sta il condizionamento, a farci stare un film in realtà non “brutto”, ma in sostanza anonimo e con ampi tratti di pretenzione e sterilità, profondamente antipatico, forse al di là di quanto (de)meriterebbe.
La nostra è probabilmente una reazione puerile, ce ne rendiamo conto, come sappiamo benissimo quanto un Palmarés festivaliero – ricordiamo a tal proposito il Leone d’Oro 2015 sul comodino di Lorenzo Vigas per Desde Allà, oppure quello che usa come fermacarte dal 2010 Sofia Coppola dopo l’orribile Somewhere – lasci, a prescindere, il tempo che trova: a passare alla storia sono i film, per fortuna, e non la loro notorietà a caldo, né tantomeno le decisioni spesso equilibristiche delle giurie. Alcuni film rimarranno, altri verranno presto dimenticati, altri ancora finiranno per condizionare le cinematografie degli anni a venire, verranno citati e portati a esempio, e si riveleranno nel corso degli anni come reali capolavori: è sempre stato così, ed è giusto che lo sia, è l’evoluzione, è la magia della storia del cinema, ancora giovane e in costante formazione. Hic et nunc, però, in sede di analisi e scrittura, è inevitabilmente diverso approcciarsi a un film con non pochi pregi ma anche moltissimi difetti quando è ancora una goccia nel mare rispetto a dopo la vittoria di un Pardo ritenuto immeritato, cambia il campo da gioco, cambiano le regole, e il punto non dovrebbe più essere l’equilibrio del difendere o meno, ma amare più o meno profondamente e senza riserve. Non è questo il caso di questo premio, eppure sarebbe sbagliato attaccare Godless definendolo semplicemente sterile o inutile: sarebbe da una parte profondamente ingeneroso non fare emergere la capacità di creare uno spaccato di una società ignava senza più valori né voglia di lottare, così come dall’altra è stato quantomeno opinabile sopravvalutarlo e premiarlo come miglior film, ignorando, al di là della presenza di lavori decisamente migliori, la sua incapacità di andare oltre a questa rappresentazione dell’immobilismo sociale bulgaro, l’assenza di domande più profonde e originali, la mancanza di risposte o anche solo del tentativo di cercarle. E non è certo sufficiente la progressiva ri-umanizzazione della protagonista Gana, da una freddezza degna dell’Alfredo Castro di Post Mortem di Larraìn all’emergere lento e doloroso di una coscienza, per fornire a Godless quell’aura emotiva o concettuale che avrebbe potuto elevarlo dalla mediocrità. È un film sul quale ci vuole molto equilibrio, cercando di mettere sul piatto i punti di forza e le mancanze, senza lasciarsi travolgere dai facili entusiasmi della giuria né dagli annunciati e quasi inevitabili improperi che pioveranno nei prossimi giorni dalla stampa e dal pubblico.
In primo luogo c’è il pelo sullo stomaco della protagonista, la sua imperturbabilità nel rubare le carte di identità agli anziani colti da demenza che assiste, nel venderle alla malavita perché le utilizzino per frodi di diversa natura, nel condividere con il suo ragazzo ormai solo la depressione e la dipendenza dalla morfina, mentre lui sostiene che ormai il suo sesso sia fuori uso ma si accoppia selvaggiamente con la vicina di casa, con tanto di porta aperta e viavai di bambini. Gana, nelle intenzioni della regista, è una sorta di impersonificazione dell’algida apatia bulgara: la mancanza di legge e di valori porta a diventare cinici, il cinismo porta a ulteriore ignavia e menefreghismo nei confronti delle storture, l’ignavia porta a ulteriore egoismo e ulteriore corrosione dei valori e della voglia di cambiare. Quello messo in scena è un circolo vizioso, una serie di scatole cinesi di putrescenza delle anime, in cui nemmeno un omicidio, per quanto preterintenzionale, è in grado di smuovere nuovamente le coscienze. Ci riescono invece, non senza passaggi banali, la musica, l’arte, il coro, professione di fede non nei confronti di Dio, ma nei confronti di se stessi. L’anziano direttore d’orchestra, e soprattutto il suo arresto per le frodi compiute in suo nome a causa di Gana, fa riemergere nella sua voce il dolore della condanna a morte durante i tempi della drammatica variante bulgara del comunismo, l’attesa dell’esecuzione, e poi il cinismo dei soldati quando gli venne concessa l’inaspettata grazia. A Gana torna quindi in mente l’abbandono subito da parte del padre, le mille notti passate pensando a come ucciderlo, l’incontro nel capitalismo di un supermercato, il paradosso secondo il quale è proprio la sete di vendetta a far riemergere gli ultimi brandelli di umanità. “Vorrei amare ma non posso, e neanche tu”, dice a un certo punto alla madre, riscaldando in un abbraccio rimandato per troppi anni quel rapporto ormai algido come la società. Fra giudici e poliziotti che esercitano allegramente i propri abusi di potere e i propri occhi “casualmente” chiusi sulla criminalità a loro vicina prima di lanciarsi in orge d’appartamento, morti dipinte come pietà michelangiolesche e il graduale riemergere di lacrime e rimorsi dalla scorza coriacea di Gana, la coscienza inizia a bussare e presentare i propri conti: è il momento del pentimento, della confessione, della reazione, della giustizia.
Godless è un film di anime in pena che vagano per le strade innevate, personaggi senza più un Dio né un cuore incapaci di ritrovare, fino alla più pura tragedia, anche solo l’ultima brace dell’emozione. Con uno stile di pedinamenti e sfocature che vorrebbe essere a metà strada fra i fratelli Dardenne e i “vicini di casa” rumeni Cristi Puiu e Cristian Mungiu, Godless avrebbe quindi anche qualcosa da dire, ma finisce per rimasticare cliché già visti mille volte, cadere in rappresentazioni sempliciotte e forzate della realtà – l’orgia di cui sopra per esplicare l’anima nera anche dei tutori dell’ordine, giusto per dirne una, risulta decisamente eccessiva e retorica –, sbagliare le modalità narrative, finire per essere privo di una vera e propria anima, e in fondo pure fastidiosamente autocompiaciuto dal suo stesso cinismo. Fino a un pretenziosissimo finale che riprende l’incipit, questo sì non “solo” debole ma ben oltre i limiti dell’insopportabile, che annega ciò che di buono il film era riuscito a portarsi a casa in una lettura metaforica sconclusionata, che va dallo sci come unico sprazzo vitale del film alla tensione a (nientepopodimenoche) Platone nel corpo condannato che implora acqua dalla caverna in cui è legato, mentre fuori si alternano inutili le grida nel bianco. Godless è quindi un film riuscito a metà, forse anche meno, incapace di andare davvero in profondità, incapace di aggiungere qualcosa di davvero utile, incapace di limare la propria ambizione sconfinata ma non supportata da reali intuizioni, e per questo pronto ad accartocciarcisi sopra come una foglia riarsa. Non è un film totalmente da buttare, non è un film che si riesce ad amare. Di sicuro, è un film ben più debole rispetto a tanti altri presentati in questa Locarno, lontano anni luce da un premio come il Pardo d’Oro. E di questo, onestamente, ci dispiace, al di là delle polemiche.
Marco Romagna