DIO È DONNA E SI CHIAMA PETRUNYA (2019), di Teona Strugar Mitevska

Il sonno della ragione genera regole. E tradizioni. Regole poste e imposte, irrazionali, tradizionalistiche, come quelle che vogliono la rappresentazione di Dio quale essere antropomorfo, ovviamente di genere maschile. Un’idea che non si rinviene nelle dottrine ufficiali, ma che finisce per accomunare il sentito di tutte o quasi le maggiori religioni monoteistiche del pianeta, per effetto del millenario portato di arti visive, letteratura e – per l’appunto – tradizioni. E in ciò le religioni finiscono per essere come la democrazia: un concetto tanto puro e perfetto nell’astratto Empireo delle elaborazioni dell’ideologia, quanto meschino e sciagurato – e talvolta pericoloso – nel concreto delle vicende umane.
La Petrunya del titolo è una trentaduenne macedone di Štip, ragazzona in carne, avvezza alle lunghe dormite e priva di legami sentimentali. Vive coi genitori e non ha un lavoro. Nemmeno l’intercessione di amici e parenti riesce a farle superare questa condizione di disoccupata di lungo corso: ha una laurea in storia, non ha esperienze e, soprattutto, non è abbastanza attraente da farsi desiderare dal capetto di turno, disposto – solo previo ottenimento delle grazie delle candidate – a concedere posti da segretaria in una fabbrica tessile non molto dissimile da una manifattura di Changzhou. Ritrovatasi, per puro caso, sballottata tra la folla accorsa per partecipare alla cerimonia religiosa dell’Epifania ortodossa – che prevede il rito del lancio di una croce di legno all’interno del fiume che attraversa la città, croce che deve essere ripescata da un gruppo di aitanti giovani in costume da bagno – Petrunya finisce, con gesto istintivo, per lanciarsi anch’essa nel gelido corso d’acqua. Sarà lei a ripescare la croce, con un oltraggioso attentato alla regola – rigorosamente non scritta – che prevede che la competizione sia riservata agli uomini. Petrunya fugge, portando con sé la croce che non vuole più consegnare. E il caso diventa un affaire politico-religioso che coinvolge – e imbarazza – le autorità locali.

Teona Strugar Mitevska, regista nord-macedone adottata dall’Europa cinematografica che conta (i suoi film sono tutti co-prodotti da case francesi o belghe e vengono regolarmente presentati alla Berlinale), gira il suo quinto lungometraggio e si trova, per la prima volta, a concorrere non nella (semi)lateralità di Panorama ma nella Competizione principale della kermesse mitteleuropea. Gospod postoi imeto i’ e Petrunija (titolo internazionale God exist, her name is Petrunya, in uscita in Italia come Dio è donna e si chiama Petrunya) non si aggiudicherà l’Orso d’oro, ma due riconoscimenti – comunque prestigiosi – come il Guild Film Prize e il Premio della giuria ecumenica (cui si è aggiunta la recente assegnazione del Premio Lux del Parlamento Europeo). Ma soprattutto l’opera verrà accolta, con ugual favore dal pubblico e dalla critica, come vero e proprio film-rivelazione della rassegna teutonica. In Italia il film è stato presentato in anteprima al Torino Film Festival, sezione Festa Mobile, nell’ambito di una retrospettiva personale che ha consacrato Teona Strugar Mitevska come una fra le registe più interessanti nel panorama autoriale dei Paesi europei cinematograficamente emergenti. Una retrospettiva che ha permesso di far luce sulla sua visione stilistico-narrativa, a partire da How I Killed a Saint, esordio di ottimo livello, pur sacrificato in un contesto geografico che ha sicuramente inciso sulle possibilità di diffondere la pellicola in un pubblico più ampio. Il primo lungometraggio della Mitevska, uscito nel 2004, è infatti ambientato durante la guerra civile combattuta nel 2001 in Macedonia, in cui la protagonista Viola torna a Skopje dagli Stati Uniti proprio in quei giorni in cui le tensioni tra esercito macedone e milizia separatista del National Liberation Army deflagrano in un conflitto armato (nulla di paragonabile, tuttavia, a quanto si era vissuto negli altri Paesi della ex Jugoslavia durante gli anni Novanta). Il personaggio di Viola era interpretato dalla sorella della regista, Labina, molto più che un’attrice feticcio, avendo fondato con Teona e il fratello Vuk una casa di produzione con la quale la stessa Teona ha girato quasi tutti i suoi film. E Labina si ritrova anche in Petrunya, in quel ruolo secondario ma così profondamente simbolico della giornalista che documenta – con crescente indignazione – la persecuzione scatenatasi nei confronti della protagonista a causa del suo gesto a suo modo rivoluzionario. Il suo è lo sguardo imparziale di chi giunge dall’esterno, dall’occidente più (ma non ancora abbastanza) moderno nelle pari opportunità, e con il necessario distacco guarda alla vicenda dalla giusta distanza, senza esserne parte in causa eppure sempre più convinta di quale sia la parte giusta, di quanto sia grave la condizione femminile in una società retrograda e tradizionalmente maschilista, di quali e quanto assurde siano le storture del patriarcato. Forse è lo sguardo della regista che nelle evidenti e condivisibili tesi del suo film cerca equità, lucidità ed equilibrio, innestato nel personaggio della sorella. O forse è lo sguardo dello spettatore, che da lontano tenta di discernere e farsi una propria opinione, che scruta, capisce, si stupisce, si indigna, gradualmente soffre della subalternità femminile. Una visione totalmente opposta a quella della madre di Petrunya, tanto immersa nelle tradizioni da non rendersi conto dell’ovvio, da mettere da parte se stessa e la propria femminilità fino a partecipare allo sguardo patriarcale, a condividerlo, a farlo proprio in tutte le sue iniquità come prima fra i “carnefici” senza nemmeno rendersi conto di esserne (stata) in realtà la prima vittima. Due metafore per trasformare in personaggi e in narrazione i due diversi modi di guardare un contesto/mondo che, proprio come le macchine da scrivere ai tempi del web, avanza a velocità differenti su binari non paralleli. Prima o poi, nell’intersecarsi delle orbite del conservatorismo e della rivoluzione, l’incidente fra due visioni della società e due modi di pensare incompatibili sarà inevitabile.

Non c’è più in Petrunya, maggiormente equilibrato e inevitabilmente maturo, ma anche più scopertamente militante nella sua messa alla berlina del patriarcato e nelle sue stoccate femministe, quel senso di tragica ineluttabilità che accompagnava How I Killed a Saint, dove i toni drammatici si immergevano in un’opera di ampio respiro autoriale, ma c’è la medesima centralità geografica e soprattutto sociale di una cittadina piccola e retriva del secondo lungometraggio di Teona Mitevska, I Am From Titov Veles, in cui erano protagoniste tre sorelle macedoni di cui una, manco a dirlo, interpretata da Labina. Lì a ricoprire un vero e proprio ruolo era la cittadina di Veles, tristemente famosa per l’inquinamento generato dalle sue industrie e per essersi chiamata Titov Veles fino a qualche anno dopo la morte di Tito e l’indipendenza della Macedonia, mentre qui è la minuscola Štip, con le sue tradizioni e con i suoi maschilismi, a porsi come vera e propria co-protagonista e antagonista dell'(anti)eroina Petrunya. Anche I Am From Titov Veles aveva un taglio tragico e struggente, chiaramente ispirato a quella cinematografia europea d’autore di stampo intimista, quella dei Bergman e degli Antonioni, che la regista ha richiamato espressamente come suoi ispiratori. In Titov Veles c’era però anche una forte componente onirica (pronunciata e per certi versi ridondante) che manca nelle altre sue opere. Con The Woman Who Brushed Off Her Tears, del 2012, Teona Mitevska cambia parzialmente ambientazione e pone una delle due storie che compongono il film lontano dalla madrepatria, in quell’Europa occidentale di cui si sente ormai figlia adottiva. Non cambia, tuttavia, il focus sulle donne e sulla femminilità che, interrotto solo con l’atipica opera quarta When the Day Had No Name incentrata sull’adolescenza al maschile e sui suoi demoni, tornerà in maniera prepotente, preponderante e mai così battagliera in Petrunya.
Perché quelle di Teona Mitevska sono storie (principalmente) dal taglio femminile – in questo caso smaccatamente femminista -, ambientate nella sua terra e nel presente, nel più classico degli hic et nunc, ma dotate di un respiro universale che le rende estendibili a qualsiasi tempo e a qualsiasi luogo. Fotografie della contemporaneità e del disagio dei nostri giorni, in un costante intreccio di malinconia, ennui, spleen esistenziale. Storie spesso ispirate da fatti di cronaca, come del resto avviene per Petrunya: nel 2014 a Štip, in Macedonia (che da quest’anno si chiama Macedonia del Nord, per distinguerla dalla omonima regione greca), fu realmente una ragazza a recuperare la croce dalle acque, nel tradizionale rito caratteristico dei paesi ortodossi. Un gesto che fu subito considerato oltraggioso e irriverente dalla comunità locale, e che portò la donna ad essere oggetto di scherno e vittima di insulti. Un episodio che permette di affrontare il tema della condizione femminile in determinati contesti e comunità, che dietro il paravento della tradizione nascondono un maschilismo retrogrado e un’impostazione sociale di stampo patriarcale, ormai fuori dal tempo. Ma c’è molto di più nell’affaire Petrunya. Quella croce che – secondo le credenze – dovrebbe donare un anno di buona sorte a chi la recupera, diventa il simbolo di una felicità che sembra negata a chi, per tradizione, non può partecipare alla cerimonia: le donne.
L’opera, metaforica e rigorosamente al femminile, si regge quasi interamente sulle spalle e sul corpo della protagonista, la macedone Zorica Nusheva, attrice comica prestata – con risultati eccellenti – al cinema drammatico. Il suo personaggio, abbondante, acculturato, irriverente, è interessato da un cambiamento repentino e intenso, che la porta dall’indolenza e dalla disillusione iniziale ad una pacata presa di consapevolezza della propria forza, che le consente di dominare una situazione apparentemente più grande di lei senza mai andare sopra le righe. Migliore di tutti quegli uomini che, forti di un immeritato ruolo sociale, nascondono sotto il tappeto di una supposta e arrogante virilità tutta la propria inadeguatezza. E qui ritroviamo il collegamento divino consacrato nel titolo: la passione di Petrunya e la sua resistenza non violenta sono quelle di un Cristo contemporaneo, il cui unico miracolo sta nel far cadere la maschera dell’irrazionalità dei suoi carnefici.

Vincenzo Chieppa

Si comunica che il film “DIO È DONNA E SI CHIAMA PETRUNYA” di Teona Strugar Mitevska distribuito da TEODORA FILM è stato designato Film della Critica dal Sindacato Nazionale Critici Cinematografici Italiani – SNCCI.
Motivazione:
«Giunta al quinto lungometraggio, la regista macedone continua il proprio viaggio di denuncia del suo Paese con una commedia nera e altamente simbolica. In pochi elementi di trama ma con un linguaggio evoluto, elabora una riflessione profonda su temi universali come la condizione femminile, la distinzione fra sacro e profano, la complessità delle relazioni all’interno di una comunità problematica, facendo di Petrunya un’antieroina coraggiosa e moderna in grado di trasformare in valore anche i propri limiti».