GLI UCCELLI (1963), di Alfred Hitchcock

Basterebbe forse citare il “come” del celeberrimo primo attacco, quello del solitario gabbiano che, senza motivo apparente, si lancia su Tippi Hedren ferendola alla testa. Alfred Hitchcock inizia a impostare la prima sequenza-chiave de Gli uccelli con un classico campo-controcampo che è apparentemente la naturale prosecuzione della sostanziale commedia romantica che, fra allusioni e seduzioni, innerva tutta la prima e volutamente dilatata mezz’ora: da una parte c’è la protagonista, ferma in barca in mezzo alla baia di ritorno dalla sortita a casa di Mitch, che lo osserva mentre rientra per accorgersi della coppia di inseparabili1 che ha lasciato apposta in bella vista in salotto; e dall’altra c’è Mitch che, ignaro, varca la soglia mentre la macchina da presa rimane ferma sul totale della casa, in attesa che l’avvocato, fuori campo, veda la gabbia dei pappagallini e capisca, per poi uscire trafelato alla ricerca di Melanie. Lei sorride, pienamente consapevole di averlo colpito con la sua mossa a metà strada fra la minaccia e l’interesse, lui rientra ancora una volta in casa per prendere il binocolo, e lei abbassa la testa per nascondere il viso sotto i bordi dell’imbarcazione. La soggettiva di Mitch prende corpo inquadrando ancora una volta Melanie con il mascherino che simula il cannocchiale, poi c’è ancora il sorriso di lui che la guarda (già) consapevole di averla conquistata, e solo a questo punto Hitchcock lascia che si scateni il gabbiano, andando a colpire la protagonista fino a farla sanguinare. È il momento della sorpresa, dell’evento inatteso, del primo salto sulla sedia. Ma ad Alfred Hitchcock, come più volte espresso nel corso della storica e sempre irrinunciabile intervista con Truffaut, la sorpresa è sempre interessata relativamente. A Hitchcock interessava molto di più la suspense, l’attesa, la tensione, l’inquietudine sinistra, la sensazione di pericolo o di orribile rivelazione imminente, il giocare con le aspettative dello spettatore facendogli attender un inevitabile che, ovviamente, non sempre giunge, ma quando giunge colpisce in profondità. E proprio per questo il maestro del brivido, anche quando lavora sulla sorpresa, non mostra subito la ferita e il rivolo di sangue sul volto di chi sta (ancora) tutto sommato bene, ma torna sin da subito alla suspense dello spettatore che conosce la causa ma non l’effetto. Prima insegue il gabbiano che si allontana nel cielo, e poi preferisce un dettaglio, la goccia di sangue sul guanto istintivamente portato alla testa da Melanie, che frastornata e impaurita riaccende il motore per tornare verso Bodega Bay. Quella che, senza che sia necessario scambiare una sola parola, viene instillata nel pubblico con il più puro linguaggio delle immagini (e con il ritmo con il quale si alternano) è la stessa preoccupazione di Mitch che assiste alla scena e si lancia in una folle corsa in auto verso la baia di fronte, e il conseguente inseguimento strada/rotta della piccola imbarcazione per poter soccorrere la donna ne è il sostanziale corrispettivo cinetico. È quella stessa suspence che, quasi come un cappio alla gola, assalirà chiunque sia sullo o davanti allo schermo quando i merli inizieranno a radunarsi di fronte alla scuola per attentare ai bambini in uscita, quando Melanie verrà assediata nella cabina telefonica, quando sentirà il rumore delle ali nella notte, quando sarà impossibile evitare l’esplosione della pompa di benzina, quando l’insegnante ed ex-amore di Mitch Annie si sacrificherà per salvare la piccola Cathy, oppure quando Lydia, la madre del co-protagonista, avanzerà per i corridoi della casa del fattore fra cocci di ceramica e tazzine mandate in frantumi dal volo degli uccelli assassini. Fino a trovare un primo cadavere ormai senza occhi, mostrato da Hitchcock con un’inquietante serie di stacchi di montaggio sullo stesso asse ad avvicinarsi al suo volto, che apre al terrore ancestrale di Lydia e al grido muto, pietrificato dall’angoscia e direttamente mutuato da quello pittorico di Munch, più famoso della storia del cinema.

Perché Gli uccelli, rimesso in macchina a Bologna in occasione del Cinema Ritrovato 2018 in una straordinaria copia d’epoca di proprietà Academy pressoché perfetta per stato di conservazione e colori, non fa solo parte della storia del cinema, ma ha contribuito a scriverla per messa in scena, per tecnica, per costruzione narrativa, per effetti speciali già pienamente credibili ben al di là dei contorni visibili del pionieristico yellow screen2 (la cui resa è paragonabile in sostanza al trasparente rispetto ai camera car in movimento), per tematiche e per evidenti influenze su tanto cinema che verrà da Lo squalo in giù. Non solo per l’animale che attacca l’uomo o per il finale (non) aperto, ma anche e soprattutto per la profusione di inquadrature dal basso a generare tensione e a bilanciare le quasi zenitali degli attacchi aerei, per i movimenti di macchina che rimangono su un dettaglio significativo (i pappagalli nella gabbietta portata a mano da Melanie, le piume impigliate, gli ambienti che vengono progressivamente distrutti), per i dolly montati sul carrello a suggerire minaccia e vertigine subliminale, per i tempi dilatati da una sigaretta durante la quale i pochi merli diventano centinaia, per il carrello ad allontanarsi dai protagonisti mentre (apparentemente) si allontana il pericolo con la casa sopravvissuta all’attacco, per il lavoro puramente sperimentale sull’audio di reali suoni ornitologici campionati e resi sinfonia o ancestrale paura, per il montaggio frenetico à la Psycho di becchi lanciati direttamente verso l’obiettivo quando Melanie verrà aggredita nel sottotetto (con tanto di leggenda a riguardo che vuole Tippi Hedren realmente ferita e ridotta, come il suo personaggio, allo stato di shock e alla quasi catatonia). Delle quasi 1500 inquadrature, più del doppio di un film normale, più del triplo rispetto alla media di Hitchcock, che compongono Gli uccelli, oltre 400 sono elaborate o effettate, complice anche la ritrosia del regista a uscire dagli studi preferendo di gran lunga ricostruire anche gli esterni, fra fondali dipinti e volatili aggiunti a minacciare dall’alto la città con la paziente e crescente violenza della loro attesa e del loro sguardo. Sembra quasi pleonastico mettersi a scrivere di come Gli uccelli sia uno dei più preziosi capolavori della Settima Arte. Lo dice la sua sconvolgente modernità a cinquantacinque anni dalla realizzazione, lo dice la sua messa in scena, aperto manuale da cui non si può smettere di imparare, e lo dice la sua storia quasi infinita di interpretazioni, fra i richiami (pennuti anziché ferrosi, ma sempre volatili) ai raid aerei e al pericolo atomico della Guerra Fredda, la natura che si riprende i suoi spazi vendicandosi dei soprusi subiti da parte dell’uomo, la filosofia che si interroga sull’ordine dell’universo e il misticismo di chi vede la punizione divina per le colpe umane. Non si sa perché Gli uccelli abbiano deciso di attaccare l’uomo, e a poco serve il materialista e scientifico interrogarsi dell’ornitologa sull’impossibilità di tutto questo, sull’intelligenza non sufficiente degli animali, sull’impossibilità che razze diverse si spostino insieme e convivano. Accade e basta, sospendendo ogni possibile incredulità e rivelando la minuzia dell’uomo nei confronti di una natura più potente di lui. In principio è il negozio di animali, il momento nel quale l’uomo ha ancora il controllo, poi è il solitario attacco a Melanie, poi è il gabbiano che sbatte sulla porta di Annie e stramazza al suolo, e infine, passando per le galline che smettono di mangiare, gli attacchi individuali diventano collettivi (i bambini aggrediti dai gabbiani alla festa di compleanno di Cathy, lo stormo che entra in casa dalla canna fumaria per uscire dal camino e seminare terrore e distruzione, i primi omicidi, i merli che assediano scuola, l’attacco in paese), fino alla definitiva sconfitta dell’uomo impotente di fronte alle specie volatili coalizzate nello spazzarlo via dal vertice della catena alimentare e dal ruolo di unico animale raziocinante, intelligente, capace di organizzarsi e di cooperare.

Perché Gli uccelli è un brivido lungo un battito d’ali. È un assedio, è una lotta fra vetri sfondati e mani sanguinanti per le beccate a tenere chiusa la scure e a rinforzare la porta proprio mentre sta cedendo qualche tegola del tetto. È una lotta impossibile, impari, che l’uomo ha già perso in partenza e che non potrà che portare alla catastrofe, alla morte, allo shock. Alla distruzione, degli oggetti e delle case, della pelle e dei volti, degli oggetti e dei corpi, dei vetri e delle tazze da the. È tutto lacerato, frantumato, demolito. Dai titoli di testa sui quali i pennuti sfondano le lettere dei titoli alle pareti della cabina telefonica che cedono, dalla vetrina sfondata in passato in macchina da Melanie per la quale l’avvocato Mitch la riconosce dai suoi ricordi in tribunale alle finestre e ai mobili demoliti dai pennuti in casa di Dan, dagli occhiali che cadono e si frantumano alla bambina in fuga alla stessa figura finale di Melanie/Tippi Hedren, ormai trasfigurata dallo shock e dalle bende, passando per i reali aneddoti di un set particolarmente complicato, fra il corvo che, seppur addestrato, prese in particolare antipatia Rod Taylor al punto da appostarsi ovunque per beccarlo alla necessità di usare una controfigura per le sequenze in cui Tippi Hedren stava ancora troppo male, due giorni dopo l’attacco subìto in mansarda, per ricominciare a girare. Gli uccelli nel mondo sono più di cento miliardi, kamikaze impossibili da controllare, impossibili da fermare, ed è proprio nella mancanza di spiegazioni logiche e scientifiche che sta tanto del fascino del film di Hitchcock. Quello che conta, nel progressivo avvilupparsi della spirale narrativa che sequenza dopo sequenza si fa sempre più violenta e asfissiante tornando con sempre maggiore potenza su temi e situazioni che precipitano, è che si può tentare di resistere, ma che prima o poi bisognerà rendersi conto che di fronte all’avanzare dell’apocalisse e del Giudizio Universale non si può che cadere e soccombere. Nello scorrere sempre più concitato e pessimista de Gli uccelli, la paura diventa minaccia, la minaccia diventa terrore, e il terrore diventa catastrofe. L’umanità è condannata, può solo approfittare del momento di calma fra un attacco e l’altro per scappare, ma la sua fuga sarà probabilmente solo un rimandare l’inevitabile, il prossimo attacco, la prossima (ri)conquista degli uccelli. Perché non si può (più) scappare, non serve a nulla. Lo dice chiaramente il mistico del ristorante, quando cita Isaia ed Ezechiele per parlare della fine del mondo, mentre qualcuno si rifugia nell’isteria dando in sostanza a Melanie della strega causa con il suo arrivo in paese di tutti i mali, qualcuno propone l’impossibile soluzione violenta contro gli uccelli, qualcuno si limita a confermare l’esistenza di altri attacchi e qualcun altro ha bisogno di andare a sbattere personalmente contro la realtà per vincere il proprio scetticismo. Ma nessuno, nelle differenze di (non) pensiero di fronte all’inspiegabile, riesce davvero a comunicare. Ci si limita a contrapporsi senza nemmeno provare a capirsi. Come quando la benzina è già a terra, un uomo ignaro ha in mano il fiammifero per accendere il sigaro e non sente Melanie che gli urla di non gettarlo a terra, aprendo alla soddisfazione degli uccelli che, dall’alto, si godono il loro capolavoro: il paese nel più completo caos, avviluppato dalle fiamme, dal brivido, dal terrore, dalla consapevolezza di non poter fare nulla. Il loro sguardo, in un certo senso, è lo stesso del cinema, che a sua volta è, o per lo meno sa essere, lo stesso dell’uomo. Dall’alto controllano, vegliano, notano, si organizzano, spiano, e inevitabilmente, dalla propria posizione privilegiata, vincono. Come se fossero un bombardamento, come se fossero (con mezzo secolo d’anticipo) un drone, come se potessero (pre)vedere le contromosse umane, fra voyeurismo, tattica militare («Sembra uno schema: colpiscono, spariscono e poi si radunano di nuovo») e conoscenza del nemico. Magari facendo leva sul suo terrore atavico dell’abbandono, debolezza umana che apre a infinite debolezze. Quell’abbandono la cui sola idea è puro panico non solo per Lydia che ha già allontanato in passato Annie dal figlio perché in sostanza gelosa di un amore superiore a quello che lei stessa riusciva a dargli e che ora studia Melanie per capire se le piaccia o meno, ma di ogni rapporto umano, dei quali fanno parte, forse necessariamente, anche l’egoismo e la paura di rimanere soli. Dal racconto omonimo di Daphne du Murier, pubblicato nel ’52, il genio di Alfred Hitchcock ha tenuto solo l’idea dell’attacco degli uccelli contro l’umanità, e poi ha costruito un qualcosa di completamente differente, stratificato, personale, tecnicamente miracoloso nelle sue soluzioni di messa in scena, nei suoi effetti speciali per il tempo stupefacenti, nelle sue implicazioni psicologiche, sociali, religiose e filosofiche, nelle sue venature al contempo ironiche e melodrammatiche, nella sua teoria/pratica cinematografica e nelle sue atmosfere thriller/horror che dalla suspense giungono al terrore più primigenio di chi lotta per sopravvivere. Centrando una delle opere più importanti e rivoluzionarie di sempre. Che la critica del tempo, fino alla doverosa rivalutazione dei Cahiers du Cinéma e della Nouvelle Vague, bollava alla stregua di filmetti. Ma questa, per fortuna, è un’altra storia, cancellata nel tempo di un – magnificamente inquietante – battito d’ali.

Marco Romagna

1 Nell’originale inglese “lovebirds”, nomen omen che allude alla seduzione e all’amore fra i protagonisti che, proprio come uccellini, si stanno beccando per studiarsi mentre introduce alla minaccia ornitologica che diverrà pura apocalisse, innervando di un inedito valore simbolico il più classico dei MacGuffin hitchcockiani.
2 È il cosiddetto “processo a vapore di sodio”, che solo i laboratori Disney, proprietari dell’unica macchina da presa in grado di sfruttare la tecnica, potevano realizzare prima dell’avvento dei blue/green screen e ancor più della rivoluzione CGI. Le figure (in questo caso ornitologiche), messe davanti a uno schermo giallo, venivano illuminate da particolari lampade a vapore di sodio, mentre la macchina da presa – modificata da una vecchia Technicolor a tripla pellicola già al tempo soppiantata dall’emulsione a colori dell’Eastmancolor in una macchina a doppia emulsione – impressiona contemporaneamente un normale positivo a colori e un altro supporto trattato per reagire solo a quel tipo di luce, non “vedendo” lo sfondo e rendendo facile il ritaglio e la sovrapposizione delle figure sulle altre immagini.