GiULiA (2021), di Ciro De Caro
Yes sir, I can boogie,
But I need a certain song,
I can boogie, boogie woogie all night long…
Ci sono infiniti modi per stonare la stessa canzone. Lo si può fare leggendola in un canto svogliato, nel lavoro come animatrice in un centro anziani così fondamentale non tanto per trovare un proprio posto nel mondo quanto, molto più prosaicamente, per riuscire a mettere qualcosa sotto i denti quando non si ha più nulla, e lo si può fare sentendola e lasciandola spontaneamente emergere come un urlo di dolore e di libertà, come il definitivo deflagrare di un orgoglio disperato, come se Funiculì Funiculà fosse l’ultimo ruggito di una fiera ferita prima di dileguarsi nella natura. Rimane identica la melodia, non cambiano le parole del testo, ma cambiano radicalmente l’atmosfera, lo stato d’animo, l’espressività, il sentimento. Da una parte la capacità di arrampicarsi e di andare avanti anche quando non si ha più nulla, la leggerezza con cui riuscire a vivere i piccoli e grandi drammi del quotidiano, i litigi e gli scatti di nervi che in qualche modo sfumano e passano fuori campo per il tempo di una danza scatenata, e dall’altra una nuova consapevolezza esistenziale di provvisorietà e di emancipazione, in cui le drammatiche conseguenze si sono già insinuate inesorabili sotto la pelle della commedia ma forse per la prima volta, vada come vada, ci si sente fino in fondo gli unici padroni della propria vita.
Prima di tutto c’è la scelta linguistica in Giulia. Una macchina da presa vicina e rigorosamente a mano, tormentata e necessariamente incerta come i protagonisti nei suoi leggeri tremolii e nelle dilatazioni dei suoi diaframmi che di continuo perdono e riaggiustano il fuoco, mentre l’insistito utilizzo di piccole ellissi temporali sulla stessa inquadratura va sistematicamente alla ricerca di uno sguardo, di un sussulto, di una smorfia, di un guizzo che sia una pennellata di pura verità sulla tela della finzione. È per questo che è stato impossibile per il regista Ciro De Caro e la co-sceneggiatrice e interprete Rosa Palasciano, nel tempo intercorso fra la prima versione dello script e le riprese nella Roma semideserta dell’estate 2020, non modificare qualche dettaglio della storia tenendo conto dell’esplosione dell’epidemia di Covid, senza volerla realmente trasfomare in una tematica, ma semplicemente integrandola come ulteriore complicazione nella quotidianità che i personaggi messi in scena vivono nel montare della calura, fra le mascherine e il gel per le mani, fra le ferite di quarantena e l’ennesima misura anti-assembramenti che fa trovare un lucchetto sul posto di lavoro. È per questo che Ciavoni, tondeggiante coinquilino perdigiorno del co-protagonista Sergio, nella vita si chiama davvero Ciavoni – Fabrizio –, e nel suo straordinario esordio assoluto sul grande schermo interpreta di fatto se stesso in un personaggio che porta il suo cognome e (per scelta non) agisce come lui. È per questo che lo straripante monologo sul senso del cinema e dei suoi spettatori di Anton Giulio – Onofri, realmente critico, conduttore televisivo e autore di due incursioni nella letteratura omosessuale – è la semplice rimessa in scena durante la festa di un suo messaggio vocale spedito anni fa all’amico regista, ed è per questo che non ci sarebbe affatto da stupirsi se Ugo Baistrocchi, fra i produttori indipendenti del film che si è ritagliato una piccola parte da interprete al centro anziani, avesse realmente sempre a disposizione sul suo tablet tutte le possibili traduzioni da Bulgakov. Non semplici aneddoti, ma vere e proprie incursioni del reale sullo schermo, che bruciano fra le maglie di una messa in scena che racconta l’impalpabilità del vuoto per esorcizzarlo fra ossessioni e follie, fra legami (anche isterici) e giocattoli, fra illusioni e certezze che crollano, fra commedia e tragedia che si intersecano e si confondono fra i flutti.
È un film puramente di persone e personaggi Giulia, consapevolmente a metà strada fra l’essere se stessi del cast e il contesto di pura finzione in cui vengono innestate le identità immaginate e cucite su di loro. Un film con cui Ciro De Caro punta l’obiettivo verso un qualcosa di invisibile, evanescente e probabilmente anche inspiegabile, eppure chiaramente percepibile e concreto nel calore dell’emotività, negli sbalzi d’umore, nei cambi di tono, nella solitudine, nei continui confronti, nell’umanità più sincera e profonda. Un film necessariamente ondivago fra Roma e il litorale, fatto di impressioni contrastanti, di emozioni contraddittorie e di anime in pena che ancora, almeno a tratti, riescono a sorridere nelle loro difficoltà economiche ed emotive, nelle loro depressioni, nella propria impossibilità di trovare appigli e certezze. Abbastanza pazzi per riuscire a sopravvivere leggeri nella follia dei tempi, e al contempo abbastanza saggi per rendersi perfettamente conto della drammaticità delle loro esistenze e della necessità di un punto di svolta. Non solo la protagonista Giulia, che dopo il lockdown da separata in casa con l’ormai ex ragazzo e qualche appuntamento di lavoro e di passione andato a vuoto si ritrova sola e senza un posto dove stare, costretta a qualche piccolo taccheggio dal fruttivendolo e a chiedere ospitalità al collega semisconosciuto e quasi altrettanto squattrinato Sergio, animatore per anziani che nemmeno è in grado di leggere un brano ad alta voce con un minimo di enfasi. È una perfetta maschera tragicomica anche Ciavoni campione di pigrizia e di approssimazione, lo è anche l’amico di sempre Fausto preoccupato per quella somma prestata a Sergio che ora servirebbe per pagare la rata del mutuo, e lo è anche e forse soprattutto la vicina di casa e fresca vedova Nella, che nel togliersi tragicamente la vita risolverà con una busta di contanti messa da parte per quel viaggio di nozze che ormai nessuno potrà più fare l’urgenza dei due amici che ora la vegliano costernati, denunciandone il ritrovamento. Un ultimo inaspettato regalo, un dolore che diventa nuovo respiro, l’ennesimo atto di dolce gentilezza.
La stessa gentilezza di Sergio nei confronti di Giulia, forse interessata o forse figlia solo della bontà d’animo, mentre solidale la ospita dormendo sul divano e paziente subisce i suoi capricci, le sue bizze, i suoi ordini, le sue accuse e il suo bisogno di alzare la voce per sfogarsi. Una giovane donna considerata “pazza” quando invece è probabilmente solo esaurita, per quella relazione di cui fatica ad accettare la fine, per quella mancanza di affetto ed empatia da cui si sente circondata, per quel figlio tanto voluto e mai arrivato da convincersi senza essere mai stata incinta di essere stata costretta ad abortirlo, per quel lavoro un po’ squallido al centro anziani prematuramente finito in ottemperanza alle regole Covid, e probabilmente pure per lo stress dato dal suo bisogno di trovare ogni volta necessariamente colpevoli e complotti a suo danno. Ma Giulia, nelle fallimentari (dis)avventure del quotidiano che finiranno per farla crescere, non vuole più essere dipendente dagli uomini che pure non ci pensano un secondo prima di gettarsi per lei nel mare in tempesta, non vuole più rinunciare al suo bisogno matto e disperatissimo di libertà. Costi quel che costi. Una fuga notturna, un autostop verso la Toscana, un peluche regalato a un bambino, un cavallo da liberare, un tuffo in quel mare da sempre e per sempre nei suoi sogni, e poi chissà. Forse viva, molto più probabilmente morta, ma in ogni caso finalmente libera. È così che, da qualche parte fra “i vitelloni” già rievocati in Spaghetti story e il coming of age già di Acqua di Marzo, Ciro De Caro cerca e trova un’autorialità preziosa e definitivamente matura con cui lasciare emergere all’improvviso la tragicità dalla commedia, in un personalissimo Il sorpasso di giocattoli raccolti nella spazzatura e di avidità ossessive nel mangiare le noccioline, di scatti d’ira immotivata e di riconciliazioni, di sincere preoccupazioni e di manie persecutorie, di rapporti umani che si sgretolano e di resilienze che svelano all’improvviso le loro conseguenze più estreme, agghiaccianti e angosciose. Quello che conta è solo immergersi e andare via, lasciandosi cullare dall’acqua salata. Magari fino a riemergere proprio in (Sala) Laguna, in quella Mostra di Venezia che, per quanto nell’estrema lateralità delle Notti Veneziane di Giornate degli Autori, non era affatto scontato che aprisse le porte a un film così indipendente e privo di sponsorizzazioni. Per una volta, sul sistema hanno vinto i meriti di un cinema sorprendente, pulsante e prezioso nel suo crepitare. Forse è proprio questo, il miracolo di Giulia, e forse è proprio qui che sta la sua redenzione, la sua soddisfazione, il suo riuscire ad avere finalmente ciò che merita. La sua dignità, la sua libertà.
Marco Romagna