GIRL (2018), di Lukas Dhont
«Sono la pecora sono la vacca
Che agli animali si vuol giocare
Sono la femmina camicia aperta
Piccole tette da succhiare
Sotto le ciglia di questi alberi
Nel chiaroscuro dove son nato
Che l’orizzonte prima del cielo
Ero lo sguardo di mia madre
“Che Fernandinho è come una figlia
Mi porta a letto caffè e tapioca
E a ricordargli che è nato maschio
Sarà l’istinto sarà la vita”
E io davanti allo specchio grande
Mi paro gli occhi con le dita
A immaginarmi tra le gambe
Una minuscola fica…»Fabrizio De André, Princesa (estratto), dall’album Anime Salve
A volte la natura può essere perfida, crudele, o per lo meno distratta. Può prendere una ragazza, Lara, e farla nascere nel corpo maschile di Victor, innestandola così in un corpo inopportuno, scorretto, nel quale non potrà mai ritrovarsi. Non è una mera questione di gusti sessuali, e del resto Lara, sedicenne ai primi ormoni per bloccare i peli e stimolare la crescita del seno in attesa dell’operazione che possa estirpare quell’escrescenza cavernosa che (ancora) le spunta in mezzo alle gambe ma che non è e non potrà mai essere in alcun modo “sua”, non è ancora sicura di quale sia il sesso che la attrae. Quella che la spinge alle cure ormonali e all’ossessione per l’intervento è una questione molto più profonda, più radicata, e per questo ancora più delicata. È una questione di identità, di intima necessità di essere se stessi, o meglio se stesse. È questione di essere donna fino in fondo, ed è questione di essere realmente percepita come “vera” donna in primo luogo da se stessa, con tutta la sua (auto)coscienza impaurita, frastornata e alla ricerca, ben prima che di una vagina, di conferme, e poi da chi le sta vicino, da chi già lo conosceva e accetta la sua natura e le sue decisioni così come da chi la conosce solo adesso come Lara, e nemmeno sospetta la sua ambiguità sessuale. Il viso di Lara, del resto, è puramente femminile, come femminile è la sua voce, femminili sono le sue labbra, femminile è la sua grazia nella danza, ma soprattutto femminile è il suo sentirsi, il suo intimo, la sua identità. È solo dal collo in giù che si insinua l’abbaglio genetico, il disguido da correggere, l’errore da estirpare, o più precisamente da evirare. È ormai un’adolescente Lara, alle porte dell’età adulta, alle porte della vita, e quotidianamente si ritrova di fronte allo specchio di fronte al suo corpo esile ma muscoloso, dal petto piatto e per il quale ogni erezione è puro disagio. È un corpo che non è in alcun modo il giusto involucro per l’anima che contiene, e solo la scienza, la medicina, gli ormoni, il coraggio di chi lotta per cambiare e il totale supporto psicologico e morale di una famiglia potranno cominciare a lavorare per rimettere le cose a posto. Il cambio di sesso è una battaglia da combattere contro la fragilità umana e contro il vivere il proprio corpo come un’umiliazione, contro i dubbi più ancestrali e contro i drammi introspettivi, contro le insicurezze e contro le inevitabili crisi di identità. Nella sua metamorfosi, Lara non vuole essere un’eroina, non vuole essere un esempio di coraggio da seguire: vuole semplicemente essere quello che ha sempre sentito di essere, una ragazza, Girl, con le proprie occasioni e con la propria dignità, con il proprio corpo e con la propria sessualità, con la propria serenità e con la propria consapevolezza di essere finalmente normale, completa, reale, e non più un inestricabile sogno/incubo/ibrido di incertezza e insoddisfazione.
Era il 2009 quando Lukas Dhont, regista belga classe 1991 che, a ventisette anni ancora da compiere, sbarca sulla Croisette per presentare in Un Certain Regard il suo primo e sorprendente lungometraggio, venne a conoscenza attraverso l’articolo di un giornale della storia di Victor/Lara, giovane ragazza nata maschio il cui più grande sogno era quello di poter diventare ballerina. Con il passare degli anni, l’interesse di Dhont nei confronti di Lara si è acuito, si è radicalizzato, è diventato una sorta di viva ossessione, e la decisione di partire dal fatto di cronaca per cucire il proprio film d’esordio sulle possibili stratificazioni intime e psicologiche del/la protagonista è venuta quasi naturale, di conseguenza. A oggi unica vera sorpresa di Cannes71, Girl è un film di pura finzione e di sguardo (già pienamente) autoriale, scritto con acume e messo in scena con garbo e intimità fra specchi, primi piani, densi dialoghi e silenzi assordanti, e che mai, nell’equilibrato meccanismo narrativo che affastella tematiche profonde ed estremamente rischiose rimanendo ben attento a non sconfinare nella retorica o nel ricatto, perde di vista la centralità di Lara, la sua psicologia, la sua vita, le sue passioni, le sue difficoltà, la sua profonda solitudine, e soprattutto il suo corpo. Un corpo sbagliato, che Lara quasi punisce con la danza e i suoi sanguinamenti dopo i duri allenamenti. Un corpo provvisorio, che Lara vuole cambiare prima possibile. Un corpo incarnato con sensibilità e fisicità straordinarie dall’attore e ballerino Victor Polster, scelto dopo lunghe e complesse sessioni di casting prendendo in considerazione oltre cinquecento candidati di ambo i sessi, ed esposto esplicitamente e senza censure ma sempre con il necessario pudore, alternando la prossimità fisica ed emotiva con la giusta distanza quando necessario lasciare spazi per non sconfinare nel morboso. Dhont, pur cedendo qua e là alle calde e sicure braccia dell’accademia, è bravo a non esagerare, a giocare col limite del fuori campo e con la profondità dell’inquadratura per non mancare mai di rispetto, per non violare mai davvero l’intimità del/la sua protagonista, per evitare qualsiasi possibile autocompiacimento, mentre l’istrionico ed espressivo Polster dona alla sua Victor/Lara non solo i suoi tratti somatici più che vagamente androgini e la sua grazia nella danza, ma tutta la sua fisicità, tutta la sua emotività, tutta la sua credibilità, tanto che a fine film, di fronte ai titoli di coda, si finisce per chiedersi (magari stupidamente, ma non può che fare onore all’opera prima di Lukas Dhont e al suo attore-rivelazione: il cinema è inganno) come mai il/la protagonista sia si sia fatto accreditare come Victor e non come Lara, quasi dimenticando che Victor Polster non è Lara, e non è, né parrebbe avere mai avuto intenzione di diventare, un vero ermafrodito transgender: è semplicemente un giovanissimo uomo di professione ballerino che si sente un giovane uomo di professione ballerino. E (ottimo) attore, evidentemente. L’intesa fra l’esordiente alla regia di un lungo e l’esordiente alla recitazione, al tempo delle riprese ancora sedicenne, è pressoché totale, e in questo connubio Girl attraversa necessità ancestrali, diritti sociali, visite mediche fisiche e psicologiche, dinamiche personali e relazionali che si evolvono quasi impercettibili ma si distruggono in un istante, innamoramenti, attrazioni e seduzioni, ossessioni e profondo senso di giustizia nella ricerca di identità e di affermazione. C’è la famiglia, un padre amorevole, preoccupato, quando necessario severo ma sempre al fianco di sua figlia, un fratellino con cui ridere e piangere, c’è la società, c’è la scuola, c’è lo sport, ci sono le docce e gli spogliatoi, e in tutto questo c’è il crescente malessere interiore di chi deve combattere anche contro se stesso e contro le proprie insicurezze. Ma soprattutto c’è la necessità di superare i propri limiti, forse l’unico vero modo per potersi realmente (ri)definire.
Profondamente intimo e rispettoso, Girl non è un film “sul” cambio di sesso, ma è un film sul limbo, sulla transizione, sulla lenta e dolorosa trasformazione. Su quel momento in cui Lara è già Lara, eppure è ancora Victor. Ha lunghi capelli biondi, ha i fori ai lobi, ha il rossetto, si trucca, è stata ammessa nella tanto agognata accademia di danza e tutti in casa – al di là del singolo lapsus di un giovanissimo fratello che non può capire quanto la stia ferendo – hanno smesso da tempo di chiamarla con il suo vecchio e sbagliato nome maschile, percependola già a tutti gli effetti come la ragazza che è e che diventerà. Ma la cura ormonale è lunga, il seno ancora non inizia ancora a spuntare, e soprattutto c’è ancora il pene, pazientemente nascosto e quasi annullato con dolorose strisce di nastro adesivo ma sempre lì, a ricordare a Lara l’errore sadico della natura, il suo non essere ancora totalmente donna dopo non essere mai stata totalmente uomo, il suo ritrovarsi costantemente fuori posto, fragile, debole, esposta anche nel suo nascondersi. Quando, dopo aver fatto di tutto per nascondere il suo corpo provvisorio e la sua verità alle compagne di danza, queste le chiederanno espressamente e quasi all’improvviso di mostrare loro proprio quel pene oggetto di vergogna, dimostrando così di avere sempre saputo, lo fanno con spirito di cameratismo e di gruppo, non certo con una precisa volontà di ferire, ma Lara si sentirà umiliata al punto di scappare, al punto di non riuscire più a mangiare né a dormire, al punto di scoperchiare definitivamente il vaso di Pandora della sua impazienza, della sua sofferenza, della sua disperazione. A costo di mettere a repentaglio la propria vita alzando la quantità di ormoni contro il parere medico sperando di accelerare il processo, a costo di rifiutare le prime seduzioni per non dare al suo corpo ancora sbagliato la soddisfazione della carne, a costo di fuggire nuovamente umiliata per paura di perdere l’amore, a costo ritrovarsi ancora una volta davanti allo specchio, ma questa con in mano un paio di forbici. Già, lo specchio, simbolo di quel doppio di nome Victor che ancora aleggia in (e su) Lara. Ci sono gli specchi di casa sui quali aspettare il gonfiarsi del seno, ci sono quelli del bagno in cui ogni giorno, fra il pudore, la solitudine e il dolore della colla sulla pelle irritata, rimuovere le strisce di nastro adesivo che nascondono la protuberanza proibita, e poi ci sono gli specchi della palestra, gli specchi della danza intorno ai quali la macchina da presa di Lukas Dhont gira e volteggia sempre elegante, sempre posata, sempre rigorosa. In un pieno realismo che non dimentica di alternare il francese a qualche momento di olandese, Girl è un film di forte sensibilità e dallo sguardo discreto e partecipe, che mette in scena le evoluzioni di Lara, il suo disagio, le sue speranze, le sue preoccupazioni, le sue frustrazioni, la sua psicologia forte eppure fragile, la sua personalità, il suo coraggio di cambiare, finalmente donna senza macchia (o meglio senza fallo) e senza paura. Contro tutto e contro tutti, contro il tempo, contro la logica, contro ogni prudenza, persino contro la medicina. E non era scontato, in un’edizione di Cannes che per ora, al di là delle conferme delle certezze Jia Zhang-ke e Jean-Luc Godard (ma ancora in attesa di Von Trier), parrebbe oltremodo avara di colpi al cuore, riuscire a scovare entrando all’ultimo momento e quasi per caso in una Sala Debussy stracolma un esordio così prezioso, così sensibile, così acuto, così giovane e al contempo così sorprendentemente maturo. Ma soprattutto così profondamente umano. Parrebbe essere nato un autore.
Marco Romagna