GIPSOFILIA (2015), di Margarida Leitão
“Vivere è essere un altro. Neppure sentire è possibile se si sente oggi come si è sentito ieri:
sentire oggi come si è sentito ieri non è sentire,
è ricordare oggi quello che si è sentito ieri,
è essere oggi il cadavere vivo di ciò che ieri è stata la vita perduta”
Fernando Pessoa
In un percorso in cui il cinema può continuamente definire lo spazio fisico dell’affetto e dell’amore, è sempre umanamente difficile percepire il momento in cui creare un quadro, relegare ad una scelta di campo la possibilità di ricordare che lotta contro un oblio sempre più continuo. Allo stesso tempo, probabilmente, la fisicità con la macchina da presa (il rapporto cuore/occhio/atto) può essere l’unico reale momento in cui tutto ciò si può definire. Margarida Leitão dopo anni di interessanti sperimentazioni tra corti di finzione e documentari, decide di mettersi realmente dietro ad una fotocamera e, con l’aiuto della nonna, girare un film sulla famiglia e le connessioni ombelicali. Un processo di ricerca potentissimo a livello umano attraverso la semplicissima descrizione di una routine, associazione di tempi in uno spazio (campo e set) in cui la memoria riacquista solidità tra divagazioni nel passato, tabù familiari, speranze per il futuro, divertissement domestici ed attese.
Ad un primo livello, emerge una dolcissima confessione incrociata tra commedia sentimentale e romanzo di formazione, ma questo gioco non può escludere la profondità. Così pian piano la camera (macchina da presa) diventa il fondamentale oggetto di relazione tra le due donne in una camera (spazio fisico). Non è solamente un gioco di parole ma un semplicissimo cortocircuito dell’immagine in cui la nonna diventa il soggetto stesso dell’oggetto messa in scena, quando lavora sugli effetti, consiglia la luce o sceglie direttamente i quadri con cui inquadrare la nipote. Margarida non sta più girando il film, nemmeno ne è la protagonista, fluttua con la nonna in questo vortice di sensi, mettendo davvero in discussione con disarmante tenerezza e semplicità i confini della rappresentazione; in fondo c’è sempre un prima ed un dopo di una ripresa, e loro lo sanno benissimo. Ecco allora che questo piccolo film diventa ancora un’altra cosa, una dimensione intimissima di condivisione, in cui l’immagine può anche restare nera, se una delle due quel giorno non ha voglia di giocare a rappresentarsi.
In fondo Margarida voleva solo tornare alle origini del proprio rapporto con il cinema, e quindi “aveva senso” solo tornare alle proprie origini, con la cosa più vicina ed intima che la potesse ancora possedere. Solo che in tutto ciò non c’è nulla di direttamente biografico o confessionale, se non un grido di libertà del vivere in questo momento, nel presente. Il film non è altro che la proiezione della nonna dentro Margarida, un continuo ed ossesivo gioco di specchi e rifrazioni che giù giù scende nell’anima, perché questo specchio non serve più alla composizione di un’inquadratura ma nella definizione di un amore. Nulla è filtrato in un atto (anche politico) di messa a nudo, di vulnerabilità estrema davanti all’obiettivo, come necessità della vita, non sicuramente di rappresentazione. Margarida probabilmente cercava il suo riflesso e, nel momento in cui la nonna costruisce il campo/quadro della propria vita, l’ha trovato.
Erik Negro