«Il suono delle campane scaccia le nuvole», mentre un giovanissimo alunno ricorda le tradizioni della sua origine rumena, e giocando coi tasti fa riecheggiare le corde di un pianoforte per le campagne delle Marche. Un’immagine commovente, così come è commovente quel ciliegio in fiore che spunta dalle macerie, candido e radiosamente proteso verso il futuro proprio come i bambini che stanno imparando a leggere e a vivere. Eppure c’è un paradossale e ossimorico retrogusto amaro che accompagna la visione del tenero e dolcissimo Giorno di scuola secondo Mauro Santini. Un retrogusto di malinconia e preoccupazione del quale il film, semplicissimo e magnifico nella sua grazia olmiana, è del tutto incolpevole, e che a ben vedere in un qualsiasi altro momento storico non si sarebbe mai e poi mai palesato. È una stratificazione ulteriore, questo retrogusto che in condizioni normali sarebbe del tutto irragionevole di fronte a un progetto concepito e realizzato per essere un simbolo di rinascita e di speranza per il futuro, un passaggio (il)logico in più che il tempo intercorso fra le riprese e la presentazione ha aggiunto al candore di Giorno di scuola. Un qualcosa che con il film ha a che fare solo in quanto contrario che sullo schermo non c’è (ancora), ma che come un discorso a latere forza una finestra per intrufolarsi e diventa inevitabilmente dialettica fra ieri (e un domani ancora lungo da venire) e oggi, fra quella che è sempre stata la quotidianità e la provvisoria ma radicalmente differente realtà del presente pandemico, fra la normalità di prima e il procrastinarsi che pare infinito di uno stato di emergenza le cui ramificazioni per arginare il contagio impattano così pesantemente sulla scuola. Fra ciò che si vede sullo schermo attraverso lo sguardo puro e prezioso del regista marchigiano, e che riempie gli occhi e il cuore di speranza e tenerezza, e quello che invece è rimasto fuori dalle inquadrature, che nel film non c’è e che non è in alcun modo il film, ma che entra ogni giorno nelle case con i telegiornali, con i litigi fra decreti nazionali e ordinanze delle regioni, con le proteste per lo più inascoltate di studenti e insegnanti di ogni ordine e grado.
È da quasi un anno che, tenuti in scacco dall’invisibile presenza di un microscopico virus, viviamo tutti in un paradosso, in una distopia, in un costante senso di impotenza, nella dimostrazione pratica di come ogni abitudine, diritto e certezza consolidata – la scuola, la socialità, la libertà di viaggiare, la stessa sala cinematografica – siano in realtà un qualcosa di più che mai effimero, provvisorio e ridiscutibile. Abbiamo assistito a lunghi mesi di serrata totale delle scuole e a un anno scolastico concluso in contumacia prima che anche quello successivo riprendesse solo a singhiozzo, abbiamo assistito a riaperture solo parziali con percentuali di studenti e di ore da non superare e al balletto politico e mediatico sui licei che ha tenuto banco fra mille cambi di direzione per tutto l’inizio dell’anno. Abbiamo assistito a un anno di bambini odiati come capri espiatori e ricordati quasi solo per accusarli periodicamente di essere untori, a un anno di polemiche su quanto siano insulsi (lo sono) i banchi a rotelle o spesso inadeguati (lo sono) i servizi di trasporto pubblico, a un anno di insopportabile retorica sulla didattica a distanza come panacea di ogni male, dimenticando come la didattica sia solo una parte infinitesimale fra i continui stimoli sociali ed emotivi della formazione scolastica, forse la meno importante in quello che è prima di tutto un lungo percorso educativo, di crescita e di formazione come individui. Che poi è il percorso che mostra, semplicemente rimanendo seduto al banco insieme ai bambini della scuola elementare di Pieve Torina (MC) ricostruita a tempo di record dopo il terremoto del 2016, Giorno di scuola. Il cammino quotidiano, i giovanissimi rapporti umani, l’uguaglianza del grembiule, il reciproco sostenersi. Le prime lettere da riconoscere, le sillabe da scrivere, il sincero stupore di fronte alle castagne e al colore delle foglie d’autunno, meraviglie della natura. Ma soprattutto l’incoraggiamento costante di cui i bambini hanno bisogno, le loro emozioni, i loro stimoli, il loro saper resistere e guardare avanti con amorevole entusiasmo anche fra le facciate ancora sventrate dal sisma, fra la memoria per quello che c’era e l’ardore immaginando ciò che ci sarà.
Ma torniamo a quello che in Giorno di scuola non c’è, torniamo a quella stratificazione pandemica che nessuno avrebbe mai voluto né pensato, ma con cui nessuno può evitare di fare i conti. Del resto lo stesso progetto di Mauro Santini, secondo il quale Giorno di scuola sarebbe dovuto essere il primo di cinque film con cui seguire l’intero percorso all’interno del quinquennio di scuola primaria dei più piccoli, è forzatamente diventato altro, ha già saltato un’annata – la scorsa – interrotta a metà prima che fosse possibile effettuare le riprese, e solo in questi giorni sta tornando a Pieve Torina per tentare di trasformare l’idea originaria in un’ipotetica trilogia. Che non potrà, nel suo prosieguo, che documentare (anche) l’epidemia, la continua contraddizione che solo una quindicina di mesi dopo le riprese sarebbe diventata la scuola, centro nevralgico delle paure pandemiche e primo fra tutti i diritti ad apparire non più così inalienabile. Senza che ci si possa fare nulla, o quasi. Un’atroce necessità che si ripercuote sui più innocenti. Viviamo un periodo che, già da bambini e ancor più da adolescenti, mette tutti contro tutti, un periodo in cui aumenta il sospetto, in cui la paura incattivisce nell’individualismo, in cui ad essere aumentata assieme alla distanza fisica c’è anche quella fra i ricchi e i poveri, fra i figli degli italiani e i figli degli immigrati, fra i ragazzi più fortunati e quelli con qualche disabilità o difficoltà cognitiva. Ecco, Giorno di scuola nient’altro è che la sempre straordinaria normalità dell’esatto opposto, della quotidiana condivisione, dell’essere una comunità solidale dove il colore della pelle o il numero di cromosomi non impediscono in alcun modo di essere compagni che crescono insieme. Ancora abituati a condividere spazi ed esperienze, gioie e paure, pressioni e complicità, sentendosi parte di quella mini-collettività e di quello spirito che così affettuosamente Mauro Santini riesce a rendere visibile con la sua sensibilità poetica nel cogliere la straordinaria semplicità della vita. Sperando che i bambini riescano a superare il trauma e a rimanere come sono sullo schermo, con la stessa innocenza e con la stessa apertura, con la stessa autenticità e con la stessa voglia (e non voglia) di imparare. Con le stesse lacrime sull’interrogazione andata male, e con lo stesso sorriso dopo l’8+ di riscatto alla prima occasione utile. Solo così potranno evitare i danni incalcolabili e a lungo termine, psicologici e sociali ancor più che meramente didattici, che l’epidemia sta creando nelle giovani generazioni. Perché il tempo corre, per loro: i mesi passano, e senza la formazione esperienziale della scuola – o, nel loro caso di più piccoli, con una formazione ridotta, in presenza ma al prezzo di protocolli degni di una sala operatoria – si rischia di ritrovarsi più grandi senza essere realmente cresciuti, perdendo quei treni della vita che passano e vanno via lo stesso, con le loro porte bloccate che paiono incapaci di fermare l’epidemia, ma sono di una precisione chirurgica nel frenare le potenzialità di chi ha meno degli altri.
Bastano una cinquantina di minuti a Mauro Santini per delineare il suo Giorno di scuola. Dallo scuolabus che gira ogni mattina fra le 37 frazioni di Pieve Torina caricando uno a uno i bambini alla loro fondamentale uscita fra le macerie per ricordare «ciò che non possiamo più vedere», e quindi non disperdere la memoria. Passando dal loro migliorarsi giorno dopo giorno, dagli stimoli costanti e dalle carezze di incoraggiamento da parte delle insegnanti, dai disegni con cui imparare giocando e dagli esercizi alla lavagna. Dalla calligrafia alla logica fino alle frasi da tradurre in inglese, dalla geografia alla matematica fino all’altrettanto importante e formativa merenda insieme fra una campana e l’altra. Domande ed esperienze che sono continue occasioni di crescita a cui rispondere con il ragionamento come con la fantasia fanciullesca, in un continuo assimilare l’importanza dei comportamenti individuali, il non sprecare acqua, il convivere con gli altri, il diventare amici. Il tenersi per mano e lo svolgere un compito insieme, il condividere anche le difficoltà, i momenti di confusione e le paure. È in questo che Giorno di scuola, apparentemente lontano dal videodiarismo sperimentale e dal racconto in prima persona di Mauro Santini, è un film profondissimamente di Mauro Santini. Un film nato su commissione, eppure personalissimo nel suo sguardo puro e nella sua sensibilità, nella sua attesa lasciando che sia la vita a scrivere la sceneggiatura durante le riprese e nella sua capacità di trovare lo splendore dell’attimo, la lirica del quotidiano, la complessa enormità della semplicità. La delicatezza di Giorno di scuola sta nella la sua precisione poetica nel mostrare con un candore disarmante tutto quello che, sacrificato alla situazione di emergenza, è rimasto da mesi ai margini del dibattito pubblico, ed è quindi in un certo senso filologico, se non altro pensando alla DAD, che all’interno dello stesso grande paradosso chiamato Covid anche Giorno di scuola sia stato a sua volta costretto alla distanza per la sua prima mondiale, meritato vincitore a dicembre di un Laceno d’Oro che ha dovuto forzatamente dematerializzarsi e spostare le sale dello storico Partenio di Avellino su piattaforma online e gli incontri con gli autori in videoconferenze pubbliche. Obbligato a rinunciare, proprio come la scuola, alla socialità, ai luoghi, alla purezza di un momento condiviso. Senza per questo perdere un solo briciolo di bellezza, o di emozione. Del resto anche il retrogusto amaro non viene dal film, ma dalla vita che è cambiata strada facendo, e che si spera torni prima possibile quella di prima. Un’altra nuvola, dopo quella del terremoto, che ha trasformato un film sulla speranza in un film su come anche la speranza possa rivelarsi provvisoria. Ma ancora viva, e pronta a tornare. Non resta che suonare le campane, o magari improvvisare su un pianoforte che non si sa suonare quelle sei note che diventeranno la base per la composizione della colonna sonora, e mandare via così la coltre di nubi. Il sole è ancora lì dietro. Basta liberarlo e tornerà a splendere.
Marco Romagna