GHOST STORIES (2017), di Jeremy Dyson e Andy Nyman
“Quando la rappresentazione trova in sé l’infinito, appare come rappresentazione orgìaca e non piùorganica: scopre in sé il tumulto, l’inquietudine, la passione sotto la calma apparente o i limiti dell’organizzato, ritrova il mostro”
Gilles Deleuze, Claire Parnet, Conversazioni
Horror, inglese, a episodi. Quella del racconto dell’orrore diviso in episodi collegati da un filo conduttore più o meno esile è una lunga tradizione del cinema inglese, una tradizione che deriva dalla forte eredità della narrativa gotica, da Horace Walpole a Sheridan Le Fanu. Negli anni ’60 nacque addirittura una casa di produzione in Inghilterra, la Amicus, specializzata proprio in film horror (gotici) ad episodi quali La morte dietro il cancello, I racconti della cripta, Le cinque chiavi del terrore, Il giardino delle torture, curiosi e inquietanti gioiellini diretti da storici specialisti del cinema britannico come i registi Freddie Francis (anche un grande direttore della fotografia, che curò, per esempio, The Elephant Man) e Roy Ward Baker. Anche se il film da cui prende più ispirazione questo Ghost Stories, giunto nelle sale dopo una lunga attesa, è il primo classico/capolavoro del genere, quell’Incubi Notturni di Hamer, Crichton, Cavalcanti e Dearden (1945), prodotto dalla gloriosa Ealing, che racconta in un sorprendente loop onirico senza speranza l’orrore della quotidianità.
Dopo questa premessa (proemio) di storia cinematografica inglese, torniamo ai giorni nostri. Ghost Stories nasce da un testo teatrale scritto e messo in scena da Jeremy Dyson e Andy Nyman che alla sua uscita nel 2010 ha superato ogni record di vendite, diventando un vero e proprio spettacolo di culto in Inghilterra. L’adattamento per il cinema pareva molto rischioso, ma i due sceneggiatori/registi hanno agito con intelligenza, posizionandosi alla perfezione per tematiche e narrazione nel panorama horror contemporaneo.
La storia inizia con i flashback in super8 di un’infanzia infelice a causa di una troppo ferrea educazione ebraica, volta al credere in maniera sottomessa alla presenza illogica di Dio. Anni dopo quel bambino, Phillip Goodman (lo stesso Nyman), è diventato un parascienziato che vive la sua esistenza per smascherare truffe paranormali, per liberare la gente dalla sottomissione alle presenze illogiche degli spiriti. Il “professor” Goodman viene contattato tramite dei misteriosi nastri registrati dal proprio mentore, un vecchio maestro nello smascherare bugie paranormali, scomparso nel nulla da anni. Questo vecchio mentore chiede a Goodman di risolvere tre casi che lui non è riuscito a risolvere e che hanno messo in crisi la sua vita perché appunto, lasciano aperta la possibilità a qualcosa di sovrannaturale. Per Goodman iniziano le indagini nella narrazione di tre episodi che metteranno in crisi la sua persona e che, inevitabilmente, lo porteranno ad affacciarsi su un abisso che nemmeno pensava potesse esistere.
Il panorama del cinema orrorifico contemporaneo ha smesso di raccontare la società come hanno fatto negli anni ’70-’80 i vari Carpenter, Romero, Yuzna e altri, ma si sta muovendo piuttosto verso il raccontare le inquietudini del singolo, la perdita del Sé da parte dei singoli individui, con le diverse percezioni del caso. Nella società di oggi, senza più alcuna certezza di tipo religioso, ideologico e politico, l’uomo è perso e solo davanti a sé stesso, tanto che quando si guarda non può far altro che perdersi. Esempi di questa “perdizione” possono essere i primi due lavori della coppia di belgi Cattet e Forzani, ma anche The Neon Demon o Le streghe di Salem. In questa direzione si inserisce Ghost Stories, seppure in termini meno visionari, più classici e ironici.
Che poi, volendo, quella intrapresa da Dyson e Nyman è la stessa intuizione avuta negli anni ’40 dagli ‘young gentlemen’ della Ealing nel già citato Incubi notturni: l’uomo moderno è un puzzle di incertezze, e quando si affaccia sull’abisso di vuoto pneumatico generato da queste incertezze ne nasce inquietudine che poi cresce in orrore, un orrore malsano, non schifoso, ma più vibrante perché ci è più corrispondente. L’orrore di Ghost Stories nasce infatti innanzitutto da punti irrisolti e irrisolvibili della nostra persona, da un’educazione violenta alla religione, da una figlia in coma vegetativo, da genitori autoritari, dalla morte della compagna nel parto. Punti dolenti che l’uomo, per quanto ci possa provare, non riesce a spiegare, e che una volta costretti a guardarli fanno affacciare su quell’abisso. I tre episodi non sono a sé stanti, ma si scoprono al contrario profondamente legati tra loro dalla cornice di Philip Goodman, e se come quasi sempre accade in un film a episodi il livello non è costante, tutti e tre gli spezzoni si dimostrano discreti gioiellini di tensione innervata di ironia ‘british’, forti del pregio di “staccare” prima di mostrare, prima di guardare in faccia il mostro ormai scoperchiato.
Il vero abisso sta però nel finale, negli ultimi venti minuti che diventano un loop senza speranza tra passato e presente, tra allucinazione e realtà dove in fondo non viene esplicitato se si tratti dell’una o dell’altra. L’epilogo poi è in questo senso parecchio stimolante: che sia tutto uno scherzo di una mente paralizzata? Oppure è un’ironica beffa del destino maligno? Qualsiasi possa essere la risposta, Ghost Stories merita senza dubbio di essere visto.
Riccardo Copreni