Get Out, arricchito dal didascalico e inutile sottotitolo italiano Scappa, è un horror del 2017 scritto e diretto dall’afroamericano Jordan Peele, principalmente attore comico, alla sua prima regia e alla sua seconda sceneggiatura cinematografica dopo la commedia gangster Keanu (2016), in cui recita anche nel ruolo del protagonista insieme a Keegan-Michael Key, con lui membro del duo comico Key & Peele. Get Out è anche il film del 2017 che sinora sta ricevendo più consensi di critica a livello globale, escludendo dal gioco i film all’ultimo festival di Cannes che, tendenzialmente, hanno più che altro diviso. E Get Out è un film sul razzismo e sul suo linguaggio, concentrato principalmente proprio sulla discriminazione nei confronti degli afroamericani nell’epoca post-Obama. I bianchi sono demonizzati, come una sorta di casta superiore cannibalizzante e crudele, figlia di un pensiero borghese perbenista colmo di ipocrisie che si susseguono giungendo dal grottesco all’inquietante fino al tragico. Il padre della ragazza di Chris, il mefistofelico Dean, dice che avrebbe ri-votato Obama nel 2016 se avesse potuto, ma allo stesso tempo nell’ira spontanea delle chiacchiere famigliari sembra paragonare gli afroamericani ai ratti, ai cervi che devono essere sterminati casualmente dalle macchine che passano nella foresta, e addirittura alla muffa. Chris è un personaggio buono e quasi privo di caratterizzazione, se non per un flashback nella sua infanzia che si ripercuote spesso per definirne la personalità, ricordandoci la veridicità dietro la regola di Westworld che per dare parvenze di umanità anche alle macchiette robotiche del cinema bisogna costruire un retroscena; Chris è afroamericano, Chris è un fotografo, Chris è una vittima di un sistema poco ospitale che lo vuole fagocitare. C’è una villa che è come la scatola-occhio steampunk antropofaga de Un piccione seduto su un ramo riflette sull’esistenza (2014) di Andersson, c’è un tavolo operatorio circondato da orripilanti arnesi chirurgici su seta rossa che rimandano immediatamente alle scene più grottesche di Inseparabili (1988) di Cronenberg, c’è una visione della collettività altolocata che pare utilizzare uno sguardo minimalista sul mondo di Society (1989) di Brian Yuzna, e c’è un incipit che, girando attorno alla vittima invece che inseguendola da lontano e poi catturandola a partire dal fuori campo, ricorda per certi punti di vista quello di Split (2016) di Shyamalan, anch’esso, come il precedente del regista indiano The Visit (2015), distribuito come Get Out dalla Blumhouse. Però, tra citazionismo sfrenato e allegorie sociologiche, prestissimo, quasi subito, l’incantesimo si rompe.
C’è da dire che la rabbia che può scaturire dalle problematiche razziste è comprensibile, soprattutto considerando che tra i film che hanno cambiato e rivoluzionato la storia del cinema vi è anche sine dubio aliquo Nascita di una nazione (1916) di D.W. Griffith, un film che vede la salvezza degli Stati Uniti d’America nell’avvento del Ku Klux Klan. Il linguaggio cinematografico della narrativa americana nasce da lì, da quel montaggio, da quella scelta di inseguimento del movimento; ma anche sì, dal sangue, dal razzismo. Ma, nel bene o nel male, è un tassello inevitabile della formazione cinematografica di chiunque. Come lo è pure, in dimensioni certamente ristrette e diverse, un film come Fa’ la cosa giusta (1989) di Spike Lee, film che, tra le canzoni dei Public Enemy e violente risse, è diventato il vero e proprio manifesto antirazzista del cinema americano, con un’espressività registica tale che i dubbi etici quasi paiono scomparire. Sono due film che pongono due problemi razziali opposti con due punti di vista opposti in due contesti storici assolutamente imparagonabili. Get Out, e questo forse è il problema principale, non ha uno sguardo ben definibile: non si può certo dire che sia un film razzista nei confronti dei bianchi, però allo stesso tempo non ci sono indizi che i bianchi non siano, in effetti, completamente mostrificati. Tutti i personaggi positivi sono neri, inclusi quelli ipnotizzati e rincoglioniti al punto da essere molesti e violenti, e non c’è un personaggio bianco che non dimostri razzismo. Tuttavia, si tratta di una sola classe sociale, o più che una classe sociale una categoria ristretta di persone che hanno sempre più un ruolo definito negli Stati Uniti odierni: trattasi di una classe medioalta liberale, che non odia gli afroamericani ma li sfrutta credendo di essere amichevole, volendo “rubare loro gli occhi” o “sfruttare le loro capacità fisiche a proprio piacimento”. Peele dunque fa, sotto certi punti di vista, una cosa giusta, ovvero attaccare l’ipocrisia del movimento SJW (Social Justice Warriors) che sta sempre più prendendo piede nell’ottica delle politiche democratiche americane, tanto da aver preso forse pieno possesso di talune decisioni statistiche in campo di spettacolo, intrattenimento e arte pop: il dare così tanto valore al razzismo dal parlarne in maniera così ostentata da rendere ridicola e dubbiosa la propria presa di posizione. Il movimento SJW si è lamentato per le troppe poche nomination ad attori neri agli Academy, ha portato a discutibili scelte economico-artistiche per svariati canali televisivi e servizi streaming come Netflix (v. Dear White People), e hanno presumibilmente tutti votato Hillary Clinton. Partendo dal presupposto che non c’è niente di sbagliato nel non essere razzista, ovviamente, e che anzi è necessario combattere per l’eguaglianza universale, il metodo ipocrita degli SJW ha risvegliato le coscienze di vari anche per come questo tentativo di collettività ha poi portato all’opposto di un tentativo di pace, con numerosi casi paradossali di violenza, odio e diffamazione nei confronti di chi non fa parte di una minoranza, di questi ricchi, bianchi, eterosessuali che minacciano le altre culture. In ciò, secondo certi forum di internet, si trova il seme della vittoria di Donald Trump alle presidenziali. Di questo non possiamo essere sicuri, ma possiamo essere sicuri che, pur criticando questo farisaismo conformista, Get Out, incolpando dei mali dell’uomo afroamericano moderno solo e soltanto una classe sociale (e “razziale”), ne fa a suo modo parte. Cerca di mischiare le carte in tavola mostrando tra i vari anziani in giacca e cravatta pure un giapponese, cerca di rendere il film eccentrico e grottesco con antiche televisioni, trapianti di cervello, galleristi ciechi, primi piani piangenti e partite a Bingo, ma Peele non ha lo stile né il coraggio necessari per elevare la sua opera prima ai livelli di un horror di classe, spesso affondando nella stessa area sommersa in cui annega Chris quando viene ipnotizzato.
Get Out è un horror archetipale dai ritmi e dai colpi di scena televisivi, un film che, volendo forse scontrarsi con il dogma non-scritto che «nei film horror il nero muore per primo», mette in scena una revenge-story a tema razziale che in realtà contiene tutti i cliché del genere, virando davvero poco lontano da altri prodotti più banali e meno considerati – probabilmente non deve essere un film imprevedibile, anzi, ma allo stesso tempo per causare lo spavento, in un modo o nell’altro, è richiesta un’immersione nella storia che al cinema dev’essere messa in scena da una regia efficace; forse Peele avrebbe dovuto fornire un soggetto, e poi qualcun altro avrebbe dovuto curare la sceneggiatura e qualcun altro ancora la regia. Tra queste banalità c’è la spalla comica afroamericana come in The Alchemist Cookbook (2015), ma il suo linguaggio stereotipato non fa parte di una delineazione culturale degli spazi dell’orrore, bensì sembra solamente una maniera per riempire il minutaggio con delle risate di buon gusto, aggiungendo una critica pure alle forze di polizia – rappresentate, però, da neri (in ciò ci sarebbe una scelta etica?). L’amico cita Eyes Wide Shut (1999) abbastanza fuori contesto, in un film che drammatizza una problematica senza mai portarla alle estreme conseguenze di paura e violenza, suggerendo ma senza colpire l’occhio, ipnotizzando e, in fin dei conti, parlando poco o nulla delle possibili discussioni che si possono fare sul tema; da un certo punto di vista, anche un film mediocre e sopravvalutato negli U.S.A. come Moonlight (2016), mostrando uno sguardo più onesto sul razzismo e anche più integrato nei meandri di una cultura, può essere stilisticamente e moralmente più intelligente e costruito di Get Out; per non parlare poi delle operazioni di ricostruzione metacinematografica dell’America razzista degli western che ha fatto Tarantino attraverso il supereroismo pseudo-Peckinpah di Django Unchained (2012) e gli elogi alla finzione post-Ford e post-Carpenter di The Hateful Eight (2015). Alla fine, la claustrofobia e la paura sono davvero poche, lo stile che elogia la narrativa della letteratura e del cinema horror di un tempo lascia il tempo che trova e la riflessione sul razzismo è davvero poco stratificata e forse anche parzialmente ipocrita. Certo, Jordan Peele c’ha provato, e per questo lo si può stimare, a passare dal registro della commedia demenziale direttamente all’horror sociale riuscendo, in un qualche modo, a smuovere certe coscienze cinefile nel panorama dell’attivismo statunitense dell’epoca di Trump, distribuendo il film benissimo a livello commerciale nonostante il trailer e il poster mostrino tutto il film incluse sequenze grottesco-paranormali che sono state poi evidentemente tagliate dal montaggio definitivo: ma abbiamo davvero bisogno di uno sguardo così immobile, sia da un punto di vista di genere cinematografico sia da un punto di vista politico?
Nicola Settis