GENUS PAN (2020), di Lav Diaz
Non si può partire se non dicendo le due cose che chiunque abbia visto Genus Pan ha ormai già detto: che è il più corto tra i lungometraggi di finzione di Lav Diaz da quando ha cominciato a dilatare i tempi all’inverosimile con la cifra stilistica che ha caratterizzato pressoché ogni sua opera da Evolution of a Filipino Family in poi, e che il titolo originale Lahi, Hayop è traducibile in italiano come “razza, animale”, mentre quello internazionale in inglese Genus Pan corrisponde più che altro a “genere, Pan”. “Pan” è la totalità, ma anche il Dio satiro, lo spirito della foresta, selvaggio, caprino, simbolo fallico della ferocia della fauna. Il “doppio” titolo, insieme alle dichiarazioni del regista e a una breve sequenza del film in cui un programma radiofonico approfondisce il tema, è riferito a una verità biologica sul genere umano, il nostro essere effettivamente animali, e dunque il nostro essere contenitori del seme dell’impulso e dell’istinto di sopravvivenza, qua inteso nelle sue divergenze più radicali e violente. La trama è politica, e dunque legata alla nozione aristotelica che vede “l’animale sociale” come la spiegazione più sintetica dell’essere uomo, e, come di consueto in Lav Diaz, il discorso sociopolitico è anche allegoria critica del populismo assolutista di Rodrigo Duterte e al ricordo della dittatura di Ferdinand Marcos. Tuttavia, invece di raccontare il ruolo del dittatore e del politicante opprimente in un gioco al massacro con al centro la memoria storica di un popolo, come fatto recentemente sia nel musical Season of the devil che nel fantascientifico The Halt, Diaz in Genus Pan torna al microcosmo, resta nel territorio agreste e preferisce raccontare meccanismi di potere politico all’interno di un ingranaggio popolare, solo e soltanto “dal basso”. Sì, il più grande (ed estremo) tra i registi filippini usa sempre la prospettiva del popolo-vittima dei soprusi dell’esercito nelle sue sceneggiature, ma sovente è chiave l’incontro, anche astratto, tra il popolo e la classe politica, con i suoi congegni di giudizio e imposizione violenta – in Genus Pan invece, come in Heremias e in altri tra i suoi film precedenti ai grandi premi nei festival europei (Locarno, Venezia, Berlino), il confronto è tra l’uomo e se stesso, o tra l’uomo e il mondo circostante, le piccole istituzioni, la flora e gli elementi. Mette al centro dell’inquadratura dialoghi pesanti e teatrali, che caratterizzano in modo drammatico le interazioni tra i personaggi, e pone attorno a loro la natura, apparentemente calma, ma in verità costantemente mossa dal movimento naturale del vento, dell’acqua e degli insetti; un cinema narrativo e impostato la cui vera missione è traviata e nel contempo resa più profonda e complessa dallo scorrere naturale della vita attorno. L’uomo animale è immerso in un mondo di piramidi alimentari e leggi del più forte, un mondo a cui egli si può adattare, mentre la distruzione e l’omicidio sono auto-riferite alla nostra specie, un’autodistruzione mossa dalla ragione che va controcorrente rispetto allo spazio circostante, divino (o perlomeno sublime manifestazione del cosmo) e non politico.
La critica che molti hanno posto nei confronti di Genus Pan consiste nel fatto che, ironicamente, la restrizione delle durate abbia portato a una certa compressione dei tempi dell’intreccio, e dunque a ellissi indesiderate, fraintendimenti nella comprensione della storia, e una sensazione generale che sia tutto un po’ “tirato via”. Due ore e quaranta però non sarebbero poche in un cinema “normale”, e bisogna considerare che naturalmente il cinema di Lav Diaz è ostico ai più; Genus Pan in quest’ottica rientra, come in precedenza probabilmente sia Norte che The woman who left, nella categoria dei film “per neofiti” del suo stile, per entrare in un modo di raccontare diverso, nel contempo pregno di pathos e dispersivo, ultra-narrativo e smaccatamente meditativo ma con un senso violento di ribellione, artistica come politica, la cui genuinità è difficile da riscontrare altrove. Nel momento in cui le inquadrature fisse in bianco e nero e i tempi dilatati dello stile registico dell’autore sono diventati istituzionalmente più accettati e popolari nella scena festivaliera cinematografica europea, sempre tra The woman who left e From what is before, sono nati lavori come The Halt e Season of the devil che giocano con la commistione dei generi, applicando l’asciuttezza di queste forme narrative a più contesti come volendone testare l’efficacia al di fuori del percorso prestabilito, già potente ma certamente ripetitivo, e anche in questo caso probabilmente la finalità è avvicinare altri, nuovi tipi di pubblico, senza chiudersi necessariamente alla fetta di spettatori fedeli che Diaz già si è ritagliato in tutto il mondo con opere invero tutt’altro che accessibili. Non condanneremmo Genus Pan per questa sua proprietà, dato e considerato che un cinema più universale è più auspicabile di un cinema più elitario (e il cinema di Diaz è nel contempo formalmente popolare e troppo “diverso” per il pubblico popolare): questa privazione di certi elementi più estremi appare non come un tradimento di preconcetti già stabiliti quanto una continuazione di un discorso. Del resto, ormai, il cinema di Diaz ha una caratteristica pressoché unica nel cinema narrativo mondiale, nell’effetto sullo spettatore più appassionato: la capacità di creare stupore non più solo con la lirica e scelte di regia che al di fuori del suo metodo di racconto sarebbero folli, ma anche e soprattutto con i rari, intensi momenti in cui la grammatica cinematografica tradizionale subentra, interrompendo o rivoluzionando il senso misterioso e tragico di sospensione che permea l’intera durata dell’opera. Sono pochi a poter ancora stupire con un campo-controcampo, con uno stacco sull’asse, con un piano di reazione, tecniche e trovate che nel cinema narrativo tradizionale sono all’ordine del giorno.
Ma parlare di Genus Pan solo in servizio di un discorso sul percorso nella filmografia di Lav Diaz sarebbe un disservizio nei confronti del suo valore umano e cinematografico, perché significherebbe riferirsi a esso solo nella dimensione in cui è un passo in una direzione diversa rispetto alla filmografia precedente che, comunque, ha un valore artistico più unico, e quindi non può non essere un punto di riferimento per orientarci. Ma il resto della filmografia di Diaz non dovrebbe significarci altro se analizziamo solo quest’ultimo film, anche perché Genus Pan sembra proprio costruito per dare agli spettatori meno masticati un assaggio di cosa queste modalità registiche possono regalare a livello emotivo e immersivo a chi non vi è avvezzo. Lo sembra proprio a causa delle scelte tecniche convenzionali, della trama complessa e compressa, e della qualità della cinepresa che sicuramente elimina in parte il blocco estetico che alcuni tra i suoi primi film (appunto, Heremias e Evolution of a Filipino Family, come anche Death in the Land of Encantos o Melancholia) potevano costituire. Ma Genus Pan è così efficace anche, banalmente, per la narrazione, fantasma e riassunto (con tanto di bestemmia impossibile da trattenere) della tragedia privata dell’essere operaio nelle Filippine. Il protagonista Andres è un minatore che vorrebbe rivendicare il proprio stipendio di cui una parte è stata presa dal suo collega Baldo. Questi, Andres e il “santo” Paulo, amico di Baldo dalla gioventù passata in un circo sotto gli ordini di un dittatoriale Clown, fanno un viaggio nella foresta per tornare al villaggio di provenienza di tutti e tre dopo i mesi passati nella cava. Il viaggio corrisponde alla parte centrale del film, in cui il conflitto tra i tre protagonisti passa progressivamente dalla dialettica alla fisicità, fino a un momento terribile in cui l’impulso ha il sopravvento e avviene un omicidio terribile. È il momento tragico della rottura, dell’uomo che diventa animalesco, della rivalsa del corpo sulla mente e sullo spirito (e sulla natura circostante), l’attimo dell’assenza di raziocinio in cui la logica dei sogni sovrasta quella della ragione e la violenza è talmente esplosiva che non vi è alcun realismo e comunque nulla appare ridicolo. La lunga inquadratura notturna è sbollata, in modo che le teste dei protagonisti sono tagliate a metà, come maggiormente a dare un’idea di “errore” nella natura delle cose, implosione dell’umano-non-umano dentro l’umano-troppo-umano. Da lì, il racconto si tramuta in una parabola sulla colpa, sulla verità e su come l’uomo può essere animale fuori dal contesto della perdizione nella giungla; si aggiungono toni quasi ‘thriller’, se vogliamo immaginare Genus Pan come un continuo nel percorso nei generi letterari del cinema nelle opere recenti di Diaz. Inggo, un agente del caos sociopatico che ricorda per assurdo la freddezza calcolatrice del personaggio di Javier Bardem in Non è un paese per vecchi, incarna l’idea che vengano create dimensioni diverse nel momento in cui si attua una ricerca di una verità, essendo lui nella posizione di costruirne di nuove e diverse ricattando e uccidendo il prossimo per vendicarsi di un torto subìto da Andres. Ovvero: minaccia l’autistica Mariposa, figlia di Paulo, una nuova ‘Florentina’ (v. Florentina Hubaldo, CTE) che agogna il cosiddetto ‘Vaso della Verità’ e poi lo distrugge, e così si crea un secondo racconto, che non è il racconto di Andres ma è un racconto su Andres, un’altra verità che sembra irreale, è una bugia, ed è rappresentata con la macchina a mano. Le uniche due scelte stilistiche che escono dai canoni della messinscena tipica di Diaz sono perciò applicate alle due versioni diversi dell’accaduto, quella vera che non sembra vera, e quella falsa che viene accettata come vera, in un percorso narrativo à la Rashomon.
Genus Pan è insomma una tappa necessaria nel cinema di Lav Diaz e nel cinema filippino, un grande film narrativo con forti idee registiche e una più che decente scelta come ‘rito di passaggio’ nella filmografia dell’autore per chi è meno abituato a certi ritmi, a causa sia della durata più umana sia dell’inserimento, pur sparso, di tecniche e scelte grammaticalmente dogmatiche. È uno dei migliori, se non il migliore, tra i film visti al Lido in quest’anno strano, ed è valso a Diaz il premio per la regia nella sezione Orizzonti, che è assurdo considerata la sua vittoria del Leone d’Oro solo 4 anni fa – sembra che stiamo tornando indietro nel tempo, e scoprendo nuove, diverse verità e falsità. Questa stratificazione e questa potenza, pur essendo forse lontane dai livelli più alti raggiunti da Diaz, sono sufficienti per rendere Genus Pan un elemento interessantissimo di cinema ultramoderno, impensabile in altre epoche ma indispensabile nella nostra, ancora unico e stupefacente anche se in modo ancora difficile per molti; ma ogni passo è un passo avanti.
Nicola Settis