GENTE COMUNE (1980), di Robert Redford
Il disturbo mentale è una costante del cinema americano mainstream dalla fine degli anni Sessanta a tutti gli anni Settanta. Le declinazioni sono le più svariate, dalla solitudine borderline di Pookie (1969) di Alan J. Pakula alle conseguenze della tossicodipendenza di Panico a Needle Park (1971) di Jerry Schatzberg, al disagio di Diario di una casalinga inquieta (1970) di Frank Perry, alla patologia urbana di Taxi Driver (1976) all’anarchia manicomiale di Qualcuno volò sul nido del cuculo (1975) di Milos Forman. Iniziano ad andare dallo psicologo anche le prostitute (Una squillo per l’ispettore Klute, 1971, Alan J. Pakula). E’ un intero mondo sommerso che sale alla ribalta della New Hollywood, spesso come estrema manifestazione di un tormento esistenziale dovuto a uno strappo insanabile con la fine del Sogno Americano, con la disillusione per un mondo fatto di certezze e speranze che vengono a crollare sotto il peso dello scontro con la realtà. Nel disagio mentale di tanta cinematografia americana risuona anche l’estrema manifestazione di una frattura drammatica con discendenze familiari e figure paterne/materne, nell’ottica di una contestazione globale dei valori borghesi. Un solco generazionale che taglia trasversalmente i film più diversi, da Cinque pezzi facili (1970) di Bob Rafelson a Love Story (1970) di Arthur Hiller, fino a lambire la casistica più conflittuale della psicopatologia. Tratto da un romanzetto non eccelso di Judith Guest, Gente comune (1980) di Robert Redford sembra in tal senso giungere al termine di un preciso percorso, dopo aver attraversato i fuochi e gli entusiasmi dei liberissimi anni Settanta. Si ritorna tra le pareti di casa, si aprono le porte di quelle abitazioni ampie e confortevoli dei sobborghi residenziali americani, si torna a riflettere sul privato e sulle macerie interiori rimaste dopo la messa in crisi di un intero sistema di valori. Non è un caso che un film così ideato venga da Robert Redford, all’esordio dietro la macchina da presa dopo anni dedicati al cinema della New Hollywood (ben noto il sodalizio artistico instaurato con Sydney Pollack). In tal senso Gente comune sembra una conferma e un’apertura verso il futuro, un film-spartiacque, un testo culturale dell’aria dei tempi.
Di nuovo abbiamo al centro del racconto una figura giovane e problematica, che però stavolta tiene rapporti conflittuali con la propria famiglia e col mondo non per rifiuto dell’omologazione o quant’altro, bensì per una ragione intima e privata. L’incomprensione e il solco abissale che si spalanca tra Conrad Jarrett e sua madre Beth (e parzialmente col padre Calvin) sembrano i frutti indiretti di un mutamento culturale che nelle sue estreme propaggini è giunto anche nelle case fredde ed eleganti della medio-alta borghesia wasp. La gente comune di Redford è benestante, confortata da una routine consolidata e rassicurante. Più del padre Calvin, ne è una perfetta rappresentante la madre Beth, mai particolarmente costretta a riflettere sull’esistenza e i suoi rovesci, abituata a occuparsi della casa, giocare a golf, passare da un drink all’altro. Almeno fino a quando il fato non ci mette lo zampino crudele, sottraendo alla donna il figlio prediletto, Buck, annegato durante un’uscita in barca col fratello minore Conrad, il quale non reggendo al dolore tenta poi il suicidio e finisce per qualche mese in un ospedale psichiatrico. Gente comune racconta il tormentoso rientro di Conrad a casa e la faticosa elaborazione post-traumatica per tutta la famiglia. Sul dolore scende un freddo silenzio, mentre i tre familiari si perdono dietro a chiacchiere inutili, cercando di recuperare una piana quotidianità. Ma inevitabilmente le crepe affiorano, e più di tutto risulta imperdonabile il comportamento di Beth, tutta protesa a una rocciosa rimozione dell’accaduto, trattando Conrad con gelida durezza. Servirà l’intervento di uno psicoterapeuta umano e paziente per portare Conrad fuori dal disagio, ma la famiglia ne uscirà comunque spezzata.
Se in Qualcuno volò sul nido del cuculo il disturbo mentale di McMurphy era in realtà una maschera per un’orgogliosa anarchia, di contro Conrad Jarrett è un fragile borghese, niente a che vedere con le scapigliatezze Seventies. Ma è pur vero che il ritratto familiare dei Jarrett sembra frutto di un paesaggio umano irrimediabilmente cambiato, in una sorta di vettorialità storica tra anni Settanta e albori del riflusso degli Ottanta. Niente è più come prima, un po’ perché i figli non accettano più ipocrisie, un po’ perché certi genitori restano troppo vincolati al benessere e ai suoi schemi. Il solco aperto rimane e l’elaborazione del lutto non si fonda più sul senso di conforto dato dalla solidarietà familiare: il dolore spacca, separa, allontana, ognuno è condannato a viverselo per conto proprio, secondo un percorso strettamente personale. Fra i tre protagonisti, ma anche in alcuni dei personaggi secondari, spira aria di un malinconico reducismo, come dopo una catastrofe culturale. A suo tempo Robert Redford riscosse un successo enorme per questo dramma familiare, guadagnandosi qualche laurea di sociologo per la capacità di raccontare in profondità una delle classi sociali più inafferrabili del panorama statunitense. C’è chi parlò di “Truffaut americano” (perché poi, Dio solo lo sa), e chi anche maledisse il film in tutte le lingue del mondo per aver sottratto l’Oscar a miglior film e regista a Toro scatenato di Martin Scorsese, diatriba prolungatasi tra i cinefili fino ai giorni nostri. Al riguardo è impossibile, e anche abbastanza sterile, prendere le parti di uno o l’altro. Si tratta di due film collocati su territori espressivi talmente diversi da rendere impossibile un qualsiasi confronto. Se da un lato si può affermare che Scorsese è autore di un cinema sicuramente più personale (ma Redford risponde con una finezza da “autore trasparente” altrettanto meritevole), potremmo risolvere la questione buttandola in mezzo e riconoscendo che il massimo scippo agli Oscar di quella edizione fu ai danni di Mary Tyler Moore, che si vide sconfitta da La ragazza di Nashville di Sissy Spacek, ottima attrice ma premiata per una delle sue occasioni meno memorabili. Di contro, la Tyler Moore dette un ritratto di rara sensibilità a un personaggio di splendida scrittura, sgradevole e umano, glaciale e tormentato. La madre che nessuno vorrebbe, e che comunque strappa una morsa penosa allo stomaco per il dolore muto sepolto dentro di lei.
Certo, a fronte di una prima metà tutta silenzi e sottintesi, segue uno scioglimento in cui il racconto si fa esplicativo e un po’ verboso, secondo una certa meccanicità di azione/reazione innescata dall’intervento psicoterapeutico. Certo, sia pure per vie sommesse e malinconiche, gli schemi hollywoodiani sono rispettati, con tanto di massima crisi risolutiva a tre quarti del racconto. Certo, come piace molto al mainstream americano la fiducia riposta nella psicoterapia è totale e incondizionata, messa in scena oltretutto secondo schemi poco credibili di psicologo amico che prevede scontri, turpiloquio e pose inconsuete (Conrad seduto a terra, mentre il dottor Berger si fa un caffè…). Certo, a corroborare il lato commovente del film contribuisce un uso scaltro del flashback, ovviamente frammentato e allusivo fino alla ricostruzione completa piazzata nel momento di massimo coinvolgimento drammatico. Però Gente comune sembra tutto fuorché un film fatto solo per suscitare ricatti sentimentali nel pubblico. Crede fortemente in ciò che racconta, e per vie umanissime e partecipi regala anche un ritratto crudele e impietoso di una certa America, talmente adagiata nel benessere da aver perso contatto con se stessa. La critica più accesa si scaglia contro l’ipocrisia e contro la vergogna sociale suscitata dai disturbi psichiatrici. Così come è narrata con inarrivabile finezza la fatica di Conrad alle prese con il reinserimento sociale: disagi, imbarazzi, difficoltà a parlare, un groviglio psichico affidato alla prova di un giovane e bravissimo Timothy Hutton (lui sì premiato con l’Oscar), di rara credibilità negli accenti di contorta angoscia. Mentre di grande sensibilità risulta anche la prova di Donald Sutherland nei panni del padre di famiglia, protagonista in prefinale di uno dei monologhi più lancinanti di tutto il cinema americano anni Ottanta.
E’ quindi innegabile che Gente comune faccia parte di un rinnovato interesse generale per i drammi privati, con particolare attenzione alle dinamiche familiari e generazionali (Kramer contro Kramer, 1979, Sul lago dorato, 1981, Voglia di tenerezza, 1983), che caratterizzerà una parte del mainstream americano anni Ottanta, ma Redford mostra anche di avere qualcosa da dire, rifuggendo innanzitutto dalla ruffiana commistione di commedia brillante e dramma che caratterizza alcuni degli altri esempi. Pur restando anche spettacolo hollywoodiano, Gente comune è un film serio che tratta questioni serie, e che non cerca praticamente mai la distensione e la complicità del pubblico tramite un sorriso garbato. E’ tragico e atterrito come lo è il vero dolore, è crudele e tagliente come una lama calda che a poco a poco si infila nel fragile burro di una famiglia spezzata. Sarebbero decine i momenti memorabili, testimoni di una rara intelligenza registica, da elencare a mo’ di esempio: dalla visita silenziosa di Beth alla stanza del figlio scomparso, all’imbarazzo della donna nel farsi una foto con Conrad, ai dialoghi impossibili tra i due, al monologo conclusivo di Calvin, all’esplosione/implosione emotiva finale di Beth. Redford conferma la sua totale onestà anche nel rifiuto del lieto fine e delle facili soluzioni, scegliendo uno spirito fedele alla complessità della vita. Per cui sì, vedetelo o rivedetelo, e commuovetevi com’è prevedibile, perché in fondo commuoversi al cinema non è un peccato mortale. Ma godete anche della sapienza drammaturgica di un mirabile esordio registico, che purtroppo non ha più avuto riscontro allo stesso livello nelle opere successive di Redford autore.
Massimiliano Schiavoni