GATTA CENERENTOLA (2017), di Alessandro Rak – Ivan Cappiello – Marino Guarnieri – Dario Sansone
Altro che “cartone animato”: Gatta Cenerentola, nelle sue forme fra il poliziesco, il gangster movie e lo scandaglio sociale, è un film di puttane, droga, tradimenti, abbondanti seni lungamente toccacciati, doppi giochi, morte, nudità, turpiloquio e mutismo. Già dal film d’esordio L’arte della felicità, presentato al tempo alla SIC veneziana, Alessandro Rak porta sullo schermo un’animazione adulta e quasi rigorosamente per adulti, matura, autoriale, dialettale, calata in Napoli e nel suo spirito, disposta a interrogarsi con acume sulle sue storture e sulle sue depressioni. Con quest’opera seconda, firmata questa volta in co-regia con i sodali Ivan Cappiello, Marino Guarnieri e Dario Sansone e “promossa” nella visibilità alla sezione Orizzonti, l’animatore campano compie un ulteriore passo in avanti, soffrendo forse ancora di qualche piccolo problema di fluidità dovuto al budget non certo faraonico (e comunque parzialmente mitigato dai “movimenti di macchina” circolari permessi dall’animazione 3D), ma dimostrando un netto miglioramento sia nella tecnica visiva, sia nella stesura della sceneggiatura, questa volta più asciutta per quanto più articolata rispetto al flusso di pensiero del protagonista del film precedente, ancor più arguta dal profilo concettuale e narrativamente ancor più coinvolgente. In un Paese in cui sostanzialmente l’industria d’animazione, specialmente per target che non siano la primissima infanzia, non esiste e parrebbe non interessare, il percorso autoriale di Alessandro Rak e dei suoi collaboratori è la speranza che ancora sia possibile un certo tipo di cinema, fatto di passione e di lunghe ore di lavoro, fatto di motion capture e di paziente rielaborazione delle immagini, fatto di accostamenti cromatici e di straordinarie somiglianze fisiche fra Renato Carpentieri e il personaggio al quale presta la voce, fatto della tradizione fiabesca di Basile resa nerissima da una quotidianità a volte desolante e delle canzoni di Gragnaniello, fatto di calzature “speciali” e di contrabbandieri, fatto di banconote arrotolate e di agrodolci incusioni nella malavita fra azione, affari, apparenza e introspezione.
Gatta Cenerentola è un film di ectoplasmi, che vagano come ologrammi a ricordare continuamente come le ambizioni del presente siano misere e vacue rispetto agli ideali nobili e filantropici del passato. A vederli è appunto Gatta Cenerentola, la figlia del ricco armatore e scienziato che ha fatto costruire la Megaride, nave di diverse tonnellate ormeggiata ormai da anni nel porto di Napoli. Rimasta orfana del padre a soli tre anni e affidata alla perfida (e complice nell’omicidio già da prima del matrimonio) matrigna, la bambina non è mai uscita dalla nave, e da buona Cenerentola viene puntualmente vessata dalla moglie/traditrice/assassina del padre e dalle di lei sei figlie, fra le quali un travestito sul quale fare intelligente ironia politicamente scorretta. Dall’omicidio nuziale del padre, Gatta Cenerentola non ha mai più parlato, e adesso di anni ne sono passati altri quindici, in cui la bambina è diventata ragazza e fra pochi giorni sarà maggiorenne, mentre la nave è sempre rimasta attraccata sulla stessa banchina, ma da polo tecnologico e della memoria è diventata un locale malfamato, gestito in combutta proprio dall’assassino del padre e amante (mai marito, perché le sue mire sono sempre state sull’eredità della neomaggiorenne) della matrigna, il trafficante di droga e cantante intimista Salvatore Lo Giusto detto ‘o Re. La città è nel frattempo caduta nel più nero degrado, e ‘o Re sogna, con i suoi poteri pressoché illimitati di popolarità, di trasformarla in una sorta di impero del riciclaggio, rifondandola su un reagente in grado di far tornare le scarpe da donna da lui “prodotte” la cocaina purissima in polvere di cui sono fatte. Da qui, Gatta Cenerentola scatena un flusso narrativo incessante, fatto di canzoni e di ricordi, di gangster e di fantasmi, di infiltrati e di guardie del corpo, di collegamenti radio e di accorati abbracci dopo tanto tempo, messi in scena con regia dinamica e tavole sature, fatte di contrasti e di colori forti, di luce e di buio, di contorni e di raccordi tesi come il condotto d’areazione nel quale Gatta Cenerentola passa i suoi unici momenti di tranquillità.
È ancora una volta un film figlio del Vesuvio a distinguersi in questa Venezia74 così piena di Italia, ma così parca di “buona” Italia. Laddove Il cratere e La Chimera si concentrano su un altri aspetti di Napoli e Le visite preferisce lambire la camorra senza realmente addentrarcisi se non negli effetti/affetti familiari, l’animazione di Gatta Cenerentola, al pari del gangster-musical secondo i Manetti Bros di Ammore e malavita, non mette semplicemente in scena una parte di criminalità, ma mette in scena proprio ‘o Re, il boss, colui che incarna l’ambizione in abiti da gangster. Dimostrando, in ogni sua scelta e in ogni sua ipocrisia, tutta la natura fallace e fugace delle ambizioni moderne e criminali. A causa sua la (fiabesca) città è ormai devastata, immersa nello squallore, ridotta a una sorta di sostanziale cumulo di macerie da cui non possono che volare cenere e lapilli. Ora, traditore pure della traditrice, è pronto a innescare una reazione a catena di amarezza e di vendette, di degrado nel quale ostentare il proprio vano lusso, di omicidi e di vessazioni. Ma ‘o Re provocherà, e questo di sicuro non lo aveva calcolato, anche un ritorno sulla nave da parte di chi vi era stato scacciato, con il suo sincero affetto per chi ha visto nascere e non crescere. È un film di rimpianti, quello firmato dal team capitanato da Alessandro Rak, eppure rappresenta una grande speranza, per una città e per un’animazione italiana sempre più incoraggiante. È un film di traumi e mutismi, di fiducia malriposta, di amarezza da parte di chi deve convivere con “l’erba cattiva”. Un film che vive della “città di merda” che mette in scena, che la ama profondamente e che cerca, nella sua parabola, di lavare via gli stereotipi che la affliggono affrontandone di petto i reali problemi e facendone emergere il cuore straziato. È un film dal grande cuore, come i ricordi più teneri che riaffiorano, come quelli più dolorosi che si ripresentano come monito o per essere finalmente riaffrontati, come la liberazione prima dell’atto estremo di un merlo mai amato, ma unico reale innocente insieme a Gatta Cenerentola. Ma anche e soprattutto come quegli spettri digitali costretti a vagare per la nave che avrebbe dovuto ospitare la tecnologia e la memoria, e che continua a farlo nonostante tutto, dopo la sua trasformazione in copertura/covo criminale e forse anche dopo la sua esplosione. Perché la memoria ritorna, protegge, insegna a non fidarsi troppo, a non scoprire mai troppo le spalle a un pugnale o a un colpo di pistola. A salvarsi all’ultimo respiro, forse pensando già a un futuro migliore.
Marco Romagna