GAIA (2021), di Jaco Bouwer

«Μουσάων Ἑλικωνιάδων ἀρχώμεθ᾽ ἀείδειν,
αἵ θ᾽ Ἑλικῶνος ἔχουσιν ὄρος μέγα τε ζάθεόν τε»
(Dalle Muse Eliconie cominciamo il canto,
loro che di Elicone possiedono il monte grande e divino)
Esiodo, Teogonia, 1-2

«Era qui molto prima che le scimmie iniziassero a sognare gli dei» Gaia, o Gea, la divinità primordiale della Terra. Dal suo amore con Urano, dio primordiale del Cielo la costringeva a non partorire, nascerà il titano Crono che evirerà il padre e ne prenderà il posto, per poi unirsi con la sorella Rea e ingoiarne i figli fino a quando non verrà ingannato con una pietra, e infine definitivamente sconfitto, dal sopravvissuto e cresciuto Zeus che lo costringerà a rigurgitare tutti i suoi fratelli e sorelle Era, Ade, Demetra e Poseidone. Ma non è sul monte Olimpo raccontato dalla mitologia classica di Esiodo, che cresce e si sviluppa in attesa di espandersi la distopia del mondo capovolto immaginato in Gaia dal sudafricano Jaco Bouwer. È oggi e in una foresta, fra le viscere del pianeta, dove la Natura è più rigogliosa e selvaggia, dove l’uomo è una preda per i funghi e dove l’occhio meccanico di un drone nient’altro è che un nemico da abbattere. Una (dea) Natura maligna, poderosa, multiforme, decisa a vendicarsi dei danni compiuti dall’uomo e a espandersi fino a mettere fine all’Antropocene. Una (dea) Natura che dopo secoli di sfruttamento indiscriminato delle sue risorse ha deciso di ribellarsi, rinforzarsi, riprodursi, e che ora si può solo onorare implorando pietà e un qualche antidoto con cui bloccare la sua inarrestabile infezione che distrugge dall’interno gli esseri umani, amandola e aiutandola nella sua crescita e nella sua guerra all’umanità per essere risparmiati dalla sua furia. Non c’è più spazio per la scienza, per la fitopatologia, per la razionalità, in questa sorta di declinazione terrestre del pianeta Pandora di Avatar. Ci sono solo i riti con cui contattare Gaia, l’esperire lisergico della sua potenza, il sangue con cui offrirle la vita, la Fede più profonda da tributarle. Forse proprio quella di Barend, sorta di eremitico profeta predicatore che ha rinunciato a ogni tipo di «diavoleria» umana per offrire al figlio Stefan una vita alternativa, a servire la dea della Natura in cambio della salvezza. Disposto a tutto per lei, persino al sacrificio più greve, lo stesso di Abramo con Isacco, mentre il formato di Gaia, già “limato” dal 2:1 iniziale a un insolito e kubrickiano 1,55:1, stringe progressivamente verso un ancor più soffocante 4/3. Eppure non sta esattamente nella crescente costrizione dei personaggi e poi nel loro abbandonarsi simbiotico alla Natura, la gestione dell’aspect ratio di Bouwer. Non sta nelle ritualità religiosa di Barend e figlio, e non sta nemmeno nella graduale scoperta e (forse) accettazione della guardia forestale Gabi, né tanto meno della sua guida Winston destinato a diventare un agglomerato di funghi, e a implorare di ucciderlo per non cedere del tutto il suo corpo alle spore trasformandosi in una delle misteriose creature umanoidi cieche che lo avevano attaccato. Nell’insistito stringersi e poi doppio riallargarsi finale dell’immagine, prima a 16/9 e infine allo schermo panoramico, c’è il rapporto fra l’umanità industrializzata e una Natura che si è progressivamente ritratta ma ora non potrà che ricominciare a riprendersi gli spazi. Una minaccia che, come sottolineato dall’agghiacciante finale, risuona come un campanello d’immediato allarme in un mondo che continua a sottovalutare i cambiamenti climatici e le sempre più frequenti tragedie idrogeologiche.

I funghi mangiano l’uomo, nella foresta fanta-scientifico-religiosa di Gaia. Lo bloccano a terra, lo penetrano con le loro spore a forma di DNA trasportate dal vento o con la crescita filamentosa dei loro corpi, lo vincono iniziando a spuntare dalla sua pelle, dai suoi occhi, dalla sua testa, come un parassita destinato a prendere possesso del suo corpo. Salvano solo i suoi organi e i suoi arti, da utilizzare e controllare per correre e vivere al posto della sua anima, e fanno sparire tutto il resto. Eppure è sempre un fungo, forse proprio quello per sempre legato al corpo di quella che fu la moglie di Barend, a produrre sotto forma di chiodino l’unico possibile antidoto per sopravvivere alla sua infezione. È una sua concessione, per la quale è sempre necessario un sacrificio. Un immaginario horror-fantasy di spore e di cappelli (quando non direttamente di sanguinose ferite a un piede) che dialoga apertamente, solo rimanendo all’interno del Trieste Science+Fiction Festival 2021 che lo ha presentato per la prima volta su grande schermo, con quello di In the Earth di Ben Wheatley, ma dove il regista britannico cerca e trova venature comiche con un registro anarcoide e orgogliosamente eccessivo che innesta il proprio violento ambientalismo nelle più estreme conseguenze dello splatter, Jaco Bouwer preferisce tenere i miceti molto più al centro della narrazione e sfruttare le atmosfere del genere per ragionare sui confini fra scienza e religione («o follia»?), sul ridiventare divinità degli elementi della Terra che hanno da sempre ispirato ogni culto, sui richiami all’Antico Testamento nell’arrendersi della micologia a un qualcosa di troppo più grande e inspiegabile. Un’ambizione differente, che porta in dialogo due universi da sempre contrapposti per mettere in scena una Natura ancor più minacciosa, ostile, iraconda, con la quale è inutile provare a comunicare e che è inutile provare a comprendere. Si può solo sentire, provare in un quarto d’ora che sembrano giorni, rivedere nelle schede di memoria delle fotocamere che hanno intrappolato l’arrivo dei mostri e gli ultimi istanti di Winston. Per poi inevitabilmente arrendersi alla sconfitta dell’uomo e alla simbiosi con chi lo ha battuto, e che prima o poi non potrà fare a meno di espandersi nell’intero mondo. Una presa di coscienza, quella di Gabi, che passa attraverso la ferita e la guarigione, l’attacco subito e la riconoscenza, i funghi che iniziano a crescere sul suo corpo e le sensazioni mai provate prima, i ripetuti risvegli concentrici dagli incubi del «tempo del sogno» e la vista delle più mostruose creature, i sermoni sempre più fanatici di Barend contrapposti alla sempre più evidente tensione erotica con il di lui giovane figlio Stefan. Un ragazzo nato già infetto che non ha mai conosciuto la civiltà né l’amore, al quale basta lo schermo in silicio di uno smartphone per intuire cosa ci possa essere al di là della foresta ma che non riesce, o forse non può, abbandonare il padre e Gaia, le spore, i riti, quel quotidiano Mistero della Fede ecologista unica sua reale conoscenza. Per lo meno non fino al momento in cui sarà costretto a scegliere, e sceglierà l’amore, fino all’ultimo respiro di porcini e licheni. Ma il destino, con l’intelligenza perfida e tagliente di Gaia dea della Natura, a volte segue percorsi più tortuosi. Tanto che potrebbe stare proprio nella morte di Barend, la sua vittoria, che poi è quella della Natura. E nel suo figlioletto innamorato e triste, finalmente nella civiltà dopo essere scampato al sacrificio ed essere stato costretto a sacrificare, il veicolo per il contagio. Sarebbe la fine dell’uomo. E, nel caso, sarebbe stato proprio l’uomo a erodere ogni possibile pazienza, firmando la sua condanna. Il resto è una mera questione di sopravvivenza. Anche per Gaia.

Marco Romagna