GAGARINE (2020), di Fanny Liatard e Jérémy Trouilh
Forse sta proprio nella scelta di affidare il ruolo di protagonista all’esordiente Alseni Bathily, lo spunto più interessante di Gagarine. Un giovanissimo ragazzo che, nella banlieue a sud-est di Parigi attualmente in corso di demolizione che dà il titolo al film, è realmente nato e cresciuto, identificandosi con il luogo e sentendosi parte di quella comunità. Basta un lampo per farlo capire. Basta un brevissimo istante in cui, fra le mille storie in super8 che puntellano la narrazione di quarant’anni di vita, appare un VHS con il protagonista ancora bambino ma perfettamente riconoscibile, felice e spensierato in giro per le unità abitative popolari a cui ha legato la sua intera esistenza. Ma è più in generale l’intera scelta del cast, fatto sì di qualche professionista (compresa l’amichevole apparizione di Denis Lavant) ma per la maggior parte di non-attori residenti e realmente legati a quei mattoni rossi di Ivry-sur-Seine, che in qualche modo lascia emergere dalla finzione della fiaba sognante di ostinate resistenze impossibili con cui Fanny Liatard e Jérémy Trouilh esordiscono a quattro mani al lungometraggio tutta la precisione del documentario. Non tanto per “la storia” di Gagarine Cité, narrata sin dalla primissima cornice attraverso il footage e l’osservazione dalla posa del primo mattone fino all’avvento delle ruspe pronte ad abbatterla, quanto per i sentimenti di appartenenza di chi realmente conosce e vive quel luogo, di chi a quel luogo è realmente legato, di chi soffre, fra ricordi e amicizie, la reale difficoltà di abbandonarlo e vederlo trasformato nell’ennesimo complesso residenziale di lusso con cui la sempre più gentrificata Parigi, ancora una volta (emblematica la sequenza in cui i ragazzi trovano dal rigattiere le targhe delle tante case popolari già abbattute, sorta di «cimitero dei palazzi» da cui cercare fino in fondo di salvare Gagarine) espande il suo centro cancellando una lunga tradizione operaia, e ricollocando gli abitanti in nuove case popolari sempre più lontane e ghettizzate quasi come se gli esseri umani e la loro casa fossero pacchi postali senza identità né orgoglio.
È in questo momento ancora in corso, la demolizione di Gagarine. Il vecchio complesso di case popolari, voluto nei primissimi anni Sessanta dall’allora fortissimo Partito Comunista Francese e dedicato al primo cosmonauta Jurij Gagarin giunto personalmente all’inaugurazione nel 1963, non esiste più, dichiarato pericolante fra i suoi impianti obsoleti e il suo amianto, evacuato di tutte le sue 370 famiglie e abbattuto. Diventerà un ricco e moderno complesso ecocompatibile, un nuovo ghetto ma per ricchi, senza che nessuno dei suoi abitanti abbia potuto farci assolutamente nulla se non, appunto, partecipare a questo film girato nelle sue ultime settimane di vita. Un film che a resistere prova fino in fondo, con la fantasia, con l’intelligenza, con le doti ingegneristiche di chi da sempre sogna di fare l’astronauta e ispira ai moduli spaziali le sue invenzioni e la sua personalissima ribellione. Con il sogno di un ragazzo, Youri, che di Gagarin porta pure il nome, e che trasformerà l’intera unità abitativa nella sua personalissima astronave pur di ritardare il più possibile l’inevitabile diaspora e smantellamento del suo microcosmo. Una visione delle banlieue che ribalta ogni stereotipo violento e conflittuale nel senso di appartenenza e nel sogno, nel senso di comunità e in una resistenza che ha per molti versi la purezza del gioco. Dalle molotov di Les Miserables alla tenerezza dei primi baci con Diana, destinata a sua volta ad assistere impotente allo smantellamento del suo campo rom senza che le fosse nemmeno lasciato il tempo di prendere i vestiti dalla roulotte, dai messaggi d’odio (o meglio, de L’odio) all’intera comunità che in perfetta collaborazione ristruttura e cambia ogni lampadina sperando di ricevere in cambio l’agibilità dell’edificio, oppure si ingegna per issare la tenda attraverso cui guardare insieme l’eclisse. Dal chiudersi in se stessi delLa schivata al condividere la propria illusione con gli amici e con la società, vivendo fino in fondo la speranza. Senza mai rassegnarsi, nemmeno quando, oltre alla piccola e inevitabile minoranza di abitanti pronta e anzi ben felice di spostarsi, pure le piante e gli ortaggi hanno abbandonato la vita, fra le polveri d’amianto degli ultimi vagiti di Gagarine Cité.
È un film sull’appartenenza e sul senso di comunità Gagarine, presentato, fra i tanti “bollinati” del Festival di Cannes 2020 annullato per epidemia, nella sezione indipendente di Alice nella Città alla 15ma Festa del Cinema di Roma. Un film sulla resistenza, sulle radici, sul lottare in ogni modo, sul non arrendersi. Sull’utopia di riuscire a non fermarsi mai, girando in tondo assieme ai suoi tre protagonisti in una panoramica che allarga gli orizzonti senza mai tradire la fedeltà a uno spazio, a un luogo, a un simbolo, a un’essenza. Un luogo in cui superare e sfondare le pareti in cartongesso fino a ottenere il perfetto corridoio del modulo lunare, in cui basta una carta forata nei punti giusti per ottenere una perfetta mappa celeste, in cui saranno l’ingegno di Youri e il suo studio dei progetti spaziali a consentire di avere ancora elettricità, acqua e perfino una serra in cui coltivare il cibo quando l’edificio viene creduto disabitato e tutto viene staccato solo in attesa di sistemare le cariche di esplosivo. Un luogo con una ben precisa storia e identità, e non è certo un caso che dalle facciate inquadrate dal basso del monolitico e imponente palazzone spunti sin da subito quello stesso Sol dell’Avvenire sui cui dettami è stato edificato e per molti anni ha vissuto, o che siano filtri rossi a scaldare i sogni cosmonautici di Youri nel freddo glaciale dei grigi di quel che era Gagarine Cité. Il resto è una fiaba urbana di codici morse e resistenza, in cui non tutto è allo stesso livello e forse si sente anche un po’ il peso dell’opera prima, ma è impossibile non ritrovarsi a difendere un film in cui non mancano mai la purezza e la sincerità del gesto, il sentimento e la vita dell’adolescenza, la realtà quotidiana resistenziale e onirica della periferia parigina. A Youri non rimane che convincere tutti i residenti a lavorare insieme a una ristrutturazione impossibile, per poi ritrovarsi l’unico a non arrendersi e l’ultimissimo a rimanere nascosto nel ventre dell’edificio. Isolato, forse, ma mai davvero solo. Per Youri ci saranno sempre Diana e Houssam, lui ancora dentro e loro fuori, con le loro luci a distanza e con i loro giradischi, con i loro avvicinamenti e con le loro distanze, con la loro ostinazione e con la loro adolescenza. Con il loro coraggio e con le loro paure, quando si sogna lo Spazio ma si soffre di vertigini nel salire su una gru, quando si parla di vivere insieme ma nel frattempo bisogna risalire sull’auto del padre, quando non c’è più nulla da fare eppure è impossibile demordere. Anche se dovesse essere una lotta contro i mulini a vento, perché è impossibile battere davvero il capitalismo, la politica, gli interessi troppo più grandi degli individui. Si può solo resistergli fino all’ultimo, fino alla luce di un disco che gira sotto un conduttore elettrico fra gli sguardi della folla. Tre punti, tre linee e tre punti, l’ultimo SOS di una casa che era un villaggio prima dell’esplosione e dei bulldozer. Ma mai e poi mai la fine del sogno. L’infinito è ancora lì, nonostante tutto.
Marco Romagna