“Per David Bowie”. Sin dalla locandina, commovente, elaborata da un frame di Absolute beginners di Julien Temple, la trentaquattresima edizione del Torino Film Festival è stata interamente dedicata al Duca Bianco, scomparso all’inizio di quest’anno il giorno dopo aver lasciato al mondo il suo ultimo regalo musicale, quel meravigliosamente straziante album che è Black Star. E, nell’ambito dell’omaggio al fondamentale musicista, attore e pittore britannico, fra le figure artistiche di maggiore spicco del Novecento, il Festival ha ritenuto doveroso riproporre, in una magnifica copia in pellicola, quello che è probabilmente il film più noto e più bello da lui interpretato, il conclamato capolavoro Merry Christmas Mr. Lawrence (titolo italiano, decisamente meno poetico, Furyo, ovvero la traslitterazione del termine nipponico per indicare i prigionieri di guerra) del maestro giapponese Nagisa Oshima. David Bowie, in Merry Christmas Mr. Lawrence, entra in scena dopo pochi minuti nel ruolo del maggiore Chelliers, la chioma biondissima che sembra quasi brillare di una luce propria, quel suo sguardo unico e folgorante nell’occhio sinistro con la pupilla rimasta dilatata, dice la leggenda, dopo un incidente giovanile con un compasso finito in tragedia. È uno sguardo che cattura, ipnotizza, e nel caso del capitano Yonoi, comandante del campo prigionieri interpretato dal compositore Ryuichi Sakamoto autore anche delle musiche di quella che è una fra le colonne sonore più belle dell’intera storia del Cinema, fa innamorare all’istante, per poi trascinare chi lo vive in un gioco torbido, malinconico e distruttivo, fra la tensione che cresce fino a raggiungere l’apice nel bacio di sfida, nelle provocazioni e nelle reazioni brutali per dissimulare la passione proibita, in attesa di lasciar esplodere la poesia lacrimata del loro ultimo incontro. Quello di Yonoi per il prigioniero, dal suo intervento perché venga trattato con gli onori che si devono a un soldato nemico anziché come un disertore al suo imbarazzo quando, per mostrare le percosse subite, Bowie si toglierà la camicia, è un innamoramento al di fuori del tempo e della situazione, proibito, problematico. Un innamoramento destinato inevitabilmente a procedere verso la tragedia, verso la morte di entrambi, ma anche verso l’apice della poetica di Nagisa Oshima, gli occhi velati di lacrime in una farfalla che si appoggia e poi vola via, in un augurio di Natale fuori stagione, nella musica che sale e accompagna le emozioni più devastate.
Perché l’omosessualità, che fosse da parte nipponica o da parte alleata, era nel 1942 un tabù del quale nemmeno parlare, solo vergognarsi, un qualcosa da tenere nascosto e da non ammettere forse nemmeno a se stessi, pena l’assoluta ignominia e forse anche la morte, come per i soldati di opposte fazioni che vengono brutalizzati all’inizio dal sergente Hara, interpretato da Takeshi Kitano quando si faceva chiamare ancora semplicemente Takeshi, era un personaggio televisivo noto ben più per la comicità che per il tragico, e il suo esordio con Violent Cop che aprì a uno dei maggiori registi della contemporaneità – da Dolls, Sonatine e Hana Bi in giù – era ancora di là da venire. Ma Furyo non è un film sull’omosessualità, e nemmeno strettamente sulla guerra e sulla prigionia. Li sfrutta solo come espedienti narrativi, come contestualizzazione per lo sgomento di Lawrence quando si renderà conto a proprie spese che la cultura giapponese preferisce giustiziare un innocente piuttosto che lasciare impunito un crimine. Quello di Oshima è un film sullo scontro fra due culture a confronto, fra la massima dignità nipponica dell’harakiri e i “suicidarsi è da vigliacchi” degli occidentali, fra la repressione di un amore proibito e i crimini di guerra, fra l’onore e la disciplina tipici del Giappone e la prigionia come male minore rispetto alla morte nello sguardo britannico, fra chi ha consacrato la propria vita all’Imperatore e si considera già morto per lui e chi invece ha invece giurato fedeltà a Sua Maestà la regina, ma rimane strettamente individualista – “Il mio passato è affar mio”. Sono sue modi diversi di concepire la vita, la guerra, la morte, l’appartenenza, la sessualità, l’onore. E tutte e due le parti in causa, come messo in scena nei comportamenti del capitano Yonoi e del capitano Hicksley – il più alto in grado fra i prigionieri e quindi loro capo e portavoce – considerano la propria cultura migliore dell’altra, la portano avanti come cavalli pazzi, mentre Mr. Lawrence (Tom Conti), prigioniero inglese che in Giappone ha vissuto e ne ha imparato la lingua, e che ora si pone come una sorta di mediatore culturale, ponte fra l’ovest e l’est del mondo, viene considerato alla stregua di un traditore. Ma in realtà, come detto nel dialogo finale, a guerra finita, fra Lawrence ormai libero e Hara nella notte prima del plotone d’esecuzione per quanto i suoi crimini di guerra non fossero diversi da quelli degli altri soldati, “Nessuno è nel giusto”. Nell’amicizia crescente fra i due, Oshima cerca quel punto di congiunzione, quella speranza che le differenze culturali possano essere abbattute, e che un uomo torni a essere semplicemente un uomo.
Merry Christmas Mr. Lawrence è un melodramma atipico fatto di scavalcamenti di campo e di torture fisiche, di audaci zenitali e di volute ripetizioni in montaggio, di libertà creativa, di politica e di cuore, gigante cinematografico con pochi eguali e sempre troppa poca considerazione. Merry Christmas Mr. Lawrence è il malinconico racconto di un amore impossibile e destinato alle ripicche, al baratro, alla crudeltà, ma anche un messaggio di pace e uguaglianza, di rifiuto della guerra, dell’omofobia, dell’eccessiva rigidità nei costumi e nell’esercito. Lo sguardo di David Bowie è fiero, baldanzoso, tanto da rifiutare la benda anche davanti al plotone d’esecuzione, guardato più con sfida che con paura. Tanto da essere forse quasi deluso, più che sollevato, quando le bocche dei fucili spareranno a salve – era solo un inganno, una condanna fasulla, un modo per tentare di estorcere chissà quale verità al soldato britannico, o forse solo per guardarne il coraggio negli occhi e, volente o nolente, innamorarsi ancora un po’. Nell’anima di Yonoi si combattono due guerre, quella contro gli alleati e quella contro la propria attrazione fatale, repressa dal tempo e dal ruolo eppure inevitabile. Quando viene scoperta una radio nascosta negli alloggi dei prigionieri, verrà incolpato l’innocente Lawrence, che si ritroverà nelle celle insieme al personaggio di David Bowie e alla sua impertinenza canterina, e Yonoi sarà inflessibile nel farlo trascinare via in attesa di giustiziarlo. Ma il sergente Hara, ubriaco e convinto di essere un Babbo Natale fuori stagione, libererà entrambi, cementando per sempre la propria amicizia con Lawrence in un Natale sbronzo e inventato, figlio dei sensi di colpa e del ricorso al sake per non pensarci, quello stesso Natale che verrà rimembrato dai due, fra tanta malinconia e ben pochi ricordi piacevoli, nel finale: “Merry Christmas Mr. Lawrence, merry Christmas”. È un finale straziante, sublime, in cui quel fermo immagine sul volto di Kitano apre alla più sconfinata e amara tenerezza, eppure l’apice della poetica di Oshima non è nell’incontro Lawrence-Hara, ma nello scontro fra il maggiore Chelliers e il capitano Yonoi, fra David Bowie e Ryuichi Sakamoto, fra i due musicisti prestati al cinema, fra il rock e l’impostazione classica, fra l’occidente e l’oriente. Il loro amore negato e proibito è quando un bacio uccide più di una spada, è quando un prigioniero lasciato deliberatamente fuggire rifiuta di farlo, è quando per puro fallo di reazione Yonoi ordina di riunire tutti i prigionieri all’aperto (compresi quelli ricoverati in ospedale destinati a morire per lo sforzo), è quando i sentimenti vengono messi in piazza senza che sia più possibile nasconderli, e rimane solo lo spazio per uno svenimento, per la perdita del grado, per l’ignominia, per la fine di tutto. Ma soprattutto il loro amore negato e proibito, cresciuto progressivamente nonostante le resistenze nell’animo del capitano nipponico, è quando Yonoi è già stato sostituito da un altro comandante “meno sentimentale”, Chelliers è già stato condannato a morte per propagginazione ed è ormai moribondo con la testa bruciata che spunta dalla sabbia, e il comandante giapponese si presenta nottetempo per l’ultima volta dal prigioniero amato, gli stacca una ciocca di capelli e poi lo guarda spirare, mentre una falena notturna si poggia delicatamente sulla sua chioma bionda. Rimane solo l’amarezza, la vittoria della guerra sull’amore, e perché le culture possano finalmente incontrarsi servono ancora tre anni, la fine del conflitto con le atomiche sul Giappone, la condanna dei soldati superstiti, perché la Storia, anche delle persone, la fa chi vince e secondo le proprie regole. “Sono pronto per morire, ma non mi interessa”. Quello che conta è farsi gli inchini, dichiararsi tardivamente la vera amicizia, ricordare “quello splendido Natale”. Ringraziarsi, per aver condiviso nella maniera meno peggiore possibile il più drammatico capitolo della loro vita, ritrovandosi a vicenda. “Merry Christmas Mr. Lawrence. Merry Christmas… Mister Lawrence”.
Marco Romagna