“E poi la gente, (perché è la gente che fa la storia)
quando si tratta di scegliere e di andare,
te la ritrovi tutta con gli occhi aperti,
che sanno benissimo cosa fare.
Quelli che hanno letto milioni di libri
e quelli che non sanno nemmeno parlare,
ed è per questo che la storia dà i brividi,
perché nessuno la può fermare.
La storia siamo noi, siamo noi padri e figli,
siamo noi, bella ciao, che partiamo.
La storia non ha nascondigli,
la storia non passa la mano.
La storia siamo noi,
siamo noi questo piatto di grano”Francesco De Gregori, La Storia
L’isola di Lampedusa è la più grande fra le minuscole Pelagie, un ponte fra l’Europa e l’Africa di poco più di 20 chilometri quadrati e poche migliaia di abitanti, terra di sole e di pescatori ma anche terra di passaggio, scena di un flusso migratorio tragico e inarrestabile. Una terra sul filo fra sogno e incubo, fra la tradizione marinaresca e un presente nel quale la morte si intrufola beffarda e spietata, tragico epilogo di una legittima quanto doverosa voglia di normalità e libertà. Perché in mare si mangia, si vive, si spera, a volte si scappa dall’orrore, ma il viaggio a volte può essere un orrore addirittura peggiore della guerra, e non è detto che si arrivi a destinazione. Gianfranco Rosi, a tre anni dal Leone d’Oro vinto a Venezia con Sacro GRA e due dopo avere premiato con il Pardo a Locarno From What Is Before di Lav Diaz, curiosamente contrapposto a lui in questo stesso concorso berlinese con il nuovo A Lullaby to the Sorrowful Mistery, torna dietro alla macchina da presa per addentrarsi nel cuore del Mediterraneo. Unico film italiano in questa edizione della kermesse teutonica, Fuocoammare è un documentario travestito da mosaico, capace di mostrare, fra vorticosi alti e qualche basso, le varie facce dell’isola: non solo la realtà degli sbarchi, ma anche e soprattutto la quotidianità degli abitanti. Lampedusa è così piccola eppure divisa in due mondi distinti e forse incompatibili, da un lato quello degli autoctoni, che proseguono la loro vita sospesa fra il mare, l’isolamento geografico e i più antichi valori tradizionali, dall’altro quello dei migranti, l’umanità dei soccorsi contrapposta al freddo straniamento del centro d’accoglienza, i barconi, la disidratazione, le ustioni da nafta e acqua di mare, la morte in viaggio. A fare da ponte, l’eccezionale figura di Pietro Bartolo, medico lampedusano che con la voce rotta dal dolore e gli occhi quasi lucidi ricorda come sia impossibile abituarsi alla vista dei bambini morti e a tanta disperazione.
Abile nell’evitare accuratamente una retorica sempliciotta dei buoni sentimenti ma nel frattempo attento a non dimostrarsi troppo freddo nei confronti della tragedia, Fuocoammare si concentra sulle famiglie lampedusane, focalizzandosi sulla figura di Samuele, bambino che passa la sua vita fra la volontà di prendere il mare come suo padre e suo nonno, il suo mal di mare, i giochi con la fionda, gli incontri nel bosco con gli uccellini e un occhio pigro da guarire con occhiali e bende che tanto ricorda la pigrizia dei nostri occhi dinanzi alla tragedia che quotidianamente si consuma a Lampedusa e al largo delle sue coste. Il suo tiro ai cactus poi pietosamente riparati con il nastro isolante, simbolo inconsapevole e fanciullesco dell’uomo che preferisce provare a risistemare un danno piuttosto che prevenirlo. Vicino a lui, il papà capitano di un peschereccio, la nonna che ogni giorno spolvera e bacia le tante statuette religiose, una piccola radio locale che trasmette canzoni popolari siciliane su richiesta. Samuele gioca, impara (più o meno) a remare, non impara inglese a scuola ma segue scrupolosamente le indicazioni dell’oculista per fare acquistare al suo occhio, e auspicabilmente ai nostri, i decimi mancanti. Mentre alla Guardia Costiera arrivano disperati SOS, suppliche, e la macchina dei soccorsi si mette in moto. Rosi gioca con le contrapposizioni, da una parte la fedeltà al giuramento di Ippocrate dell’eroico dottore pronto a spartirsi fra i pazienti -abitanti o esuli- da curare e il dramma interiore delle autopsie da eseguire, dall’altra la freddezza agghiacciante e disumana delle forze dell’ordine nel perquisire i migranti, catalogarli come se fossero dei prosciutti o dei criminali, fare la conta dei morti ad ogni arrivo di barcone con lo stesso distacco con il quale si fa l’inventario in un magazzino.
Ma non è certo immune da difetti, il nuovo film di Rosi, troppo altalenante nell’andamento, alla lunga troppo focalizzato sul bambino e troppo poco sulle possibili storie di chi, con la pelle nettamente più scura e un passato drammatico, sbarca sulle coste italiane più vicine alla sua Africa. A tratti decisamente troppo costruito fino ai limiti del falso (si prenda come esempio la sequenza nella quale il padre parla a Samuele dei propri ricordi marinareschi, tutti e due immobili verso una sorta di altarino di foto e specchi, in perfetto favore di camera e senza una sola sbavatura nei dialoghi), a volte indeciso nell’alternanza fra i suoi momenti più pulsanti e un’ironia di fondo che danza pericolosamente sul burrone del fuori luogo. Inoltre, dal punto di vista politico e sociale, Fuocoammare è un film che chiede di aprire gli occhi sulla tragedia senza però in realtà aggiungere molto a quello che già sapevamo: si parla della necessità, indiscutibile, di restituire ai migranti la propria dignità, ma Gianfranco Rosi si dimostra paradossalmente il primo a guardare e passare oltre, senza addentrarsi nelle loro vite, nella loro babele di nazionalità, nelle loro storie, finendo per indugiare troppo su Samuele, sulla sua famiglia, sulla sua vita vicinissima eppure drasticamente (forzosamente?) separata dalla profusione di drammi umani che si consumano quotidianamente. Si parla dei migranti soffocati dai motori, si ascoltano i due carabinieri incaricati di perquisire i superstiti parlare della loro puzza di nafta, si vede chi è riuscito ad arrivare a questa prima tappa di un viaggio che li porterà chissà dove, chi in Svezia, chi in Francia, chi in Germania, si mostra chi sta male e ha bisogno di immediate flebo e anche chi non ce l’ha fatta, i corpi inermi sul fondo della barca, portati via nei sacchi neri. Ma non ci si addentra mai nelle loro microstorie, nel dolore di una fuga, nella profondità dei loro sguardi.
Rimangono però due sequenze in particolare, che riescono a travalicare quest’aura di superficialità rivelandosi colpi al cuore e allo stomaco di inossidabile potenza. Prima, il racconto del dottor Bartolo, la sua profonda umanità diventata quasi una missione: in una quotidianità fatta di malnutrizione, ustionati, cadaveri e feti sofferenti per il viaggio bestiale della madre incinta, viene messa in luce la sua devastazione giornaliera -in contrasto con la cecità e la meccanicità del CPT- dinanzi ad un simile teatro degli orrori fatto di bambini morti, povertà e disperazione. Poi, la canzone che i migranti improvvisano all’interno del centro di accoglienza, un coro a cappella che cerca di lavare via il dolore nel ritmo e nella consapevolezza di essere riusciti a lasciare la guerra alle spalle, pur avendo perso in mare buona parte dei compagni di (dis)avventura. Ricordandoli, perché almeno nella memoria di chi ce l’ha fatta possano continuare il loro sogno di libertà lontano dalle primavere arabe, dal daesh, dalle bombe. In sostanza, quello di Gianfranco Rosi è un film il cui argomento è più forte del film stesso, forse troppo concentrato a farci stare simpatico il bambino per rendersi conto delle reali e strazianti possibilità umane che il solo fatto di girare a Lampedusa gli stava offrendo. Compresa la parte sulla nave militare, i soccorritori, il tappeto di cadaveri sul barcone, filmato con uno strazio emotivo che traspare in effetti più dalle interviste che dallo schermo. Ma sarebbe ingeneroso attaccare questo film, così come sarebbe decisamente esagerato gridare alla grande opera. Fuocoammare è un film imperfetto e ma figlio di intenzioni nobili e di un anno a Lampedusa, senza dubbio interessante nel dipingere le famiglie autoctone, decisamente meno nell’addentrarsi nelle singole tragedie umane che avrebbe potuto e dovuto raccontare. Del resto, quando la radio dà la notizia dell’ennesimo naufragio, l’unica cosa che si riesce a dire è “Poveri cristiani”, continuando indefessi nei lavori di casa. Dimostrando che quello che manca al film di Rosi, in realtà, è quello che manca anche a noi: l’indifferenza, volenti o nolenti, ci rende tutti responsabili di un massacro.
Marco Romagna