FUNERAL (ON THE ART OF DYING) (2016), di Boris Lehman
Pensare al cinema di Boris Lehman, in particolare all’ultima parte della sua carriera, vuol dire interrogarsi sull’esigenza stessa dell’auto-rappresentazione, chiedersi il senso del dialogare continuamente con la macchina da presa e affrontare il momento del passaggio dalla presenza fisica a quella simulacro di un’immagine. In questo ambito l’esposizione stessa del proprio funerale non può far altro che accelerare il processo o meglio condensare lo spirito intimo dell’assenza, dell’esserci stati, della perdita. Funérailles – sulla platea internazionale con il titolo Funeral (on the art of dying) – è dunque un tentativo spensierato di riprendere la propria morte, di mettere in scena il tempo del dopo nello spazio dell’ora, di giocare con la diretta in prima persona del lasciare questo mondo, e dunque di dialogare simpaticamente con la morte attraverso la (propria) immagine. Questa opera infatti invita a interrogarsi, e si compone come ultima tappa dell’infinita babele filmica di Lehman, un percorso auto-cine-biografico di trent’anni che iniziò nel 1983 con le videolettere per gli amici belgi, per poi passare attraverso a una personale videostoria declinata in fotografie, per poi chiudere strutturalemte sull’epopea delle case trascorse e passate, fino alla genesi dei propri capelli.
Questo così diventa l’ultimo capitolo di una narrazione a suo modo unica nella grande epopea del cinema underground diaristico: il capitolo dell’abbandono. Le valigie di Boris oramai sono pronte per l’ultimo viaggio, e giunge il tempo di bruciare tutto ciò che è servito in questo dai libri agli abiti, dai ricordi agli stessi film che tutto ciò condensavano, in un rogo di pellicole che è morte stessa dell’anima. Ma cosa rimane allora oltre alla volontà? Come Carlo V organizzò le prove generali del suo funerale o lo stesso Moliére morto sul palco durante il (suo) Malato Immaginario, il vecchio e canuto Boris mette in scena la sua personalissima via della croce, un processo finale alle intenzioni di una vita, una sfida stessa con l’atto ultimo dell’esistere e una performance costruita sul riprodurre più volte i momenti della propria dipartita. Tutta è una semplice messa in scena, la solita direbbero molti, a tratti eccessiva e fastidiosa ma terribilmente sincera e viva, soprattutto in un contesto così personale. Un giorno qualunque nella vita di un uomo, attraversato da persone che rappresentano costantemente il proprio ruolo nella più semplice quotidianità. Tutto si consuma così in una vertigine, fra l’intimo ed il biblico, il poetico ed il filosofico, il senso della memoria personale che diventa l’esperienza collettiva di Omero e Dante, Hugo e Cervantes, Dostojevskij e Kafka. Come se lo stesso Lehman, nel proprio rogo esistenziale, avesse il bisogno anche fisico di abbracciare le proprie radici dialettiche per superare il tabù occidentale della morte.
Il senso della morte pare appunto traslato come visione personale ed espressione dialettica di un passato da conservare in una forma non più fisica, ma sublimata nella finzione filmica del preparativo, nella ricostituzione del simulacro che sta per farsi e nella favola di finzione che Lehman vive in terza persona come abitante stesso della propria storia. Il rapporto così diventa un asse instabile tra il sacrilego e il narcisista, fra il nostalgico e il sarcastico, in cui l’unica istanza a rimanere immutata ed elevata è proprio l’esperienza umana che supera l’atto del rituale e che mette in scena unicamente l’esperienza di preparazione alla morte, e non la vita precedente. Non c’è nessun senso di agonia né tanto meno di invocazione; solo piccoli e semplici comportamenti che non seguono nemmeno una componente ritualistica, e che affermano origini, storie e idee. In fondo, anche tutto ciò pare essere un piccolo atto di esorcismo, non solo sulla propria vita e sulla propria morte, ma sul cinema stesso; superata la stessa possibilità dell’ultimo film (o del mondo), ce ne può subito essere un altro, libero, svincolato, puro, pieno del senso di reincarnazione pagana dell’immagine. Anche perché ogni immagine vive nell’ideale di essere e rappresentare il proprio passato, sopravvivendo all’omicidio del tempo sull’atto ed erigendo la sua durata; il cinema è memoria, e viceversa la memoria ne è l’identità. L’idea intangibile del bruciar(si) di una pellicola è solo il rogo su cui edificare un’altra immagine, e Lehman tutto ciò, da vecchio e sornione affabulatore di cinema, lo sa benissimo.
Erik Negro