FUKUOKA (2019), di Zhang Lu

La riconciliazione, il viaggio, la ritrovata e impossibile comunicabilità. L’amore, la comprensione, i fiumi di liquore, i doppi, i fantasmi, le streghe, i black-out elettrici, il passato che inevitabilmente ritorna. E poi il sogno, unica possibile via verso una nuova (ri)educazione sentimentale in cui non c’è più spazio per le gelosie, né per i rancori, né per i rimpianti, né per i sensi di colpa. Ma anche il canovaccio e l’improvvisazione, elementi su cui Fukuoka, simbolico e affascinante lavoro panasiatico del regista cinese Zhang Lu realizzato nell’omonima città giapponese con attori e produzione coreani fra esplicite reminiscenze di Hong Sang-soo, Jim Jarmusch, Kiyoshi Kurosawa e il François Truffaut di Jules e Jim, fonda molto del suo scorrere, della sua poetica e del suo realismo anche quando accade l’impossibile, l’inspiegabile, il metafisico. Non è certo un caso, in questo senso, che in questa sincera ricerca di spontaneità i protagonisti mantengano sullo schermo quelli che sono i loro nomi nella vita reale, così come non è certo un caso che, nel loro rapsodico vagare per la più popolosa provincia di Kyushu, siano sempre i loro sentimenti e il costante mutare forma dei loro rapporti umani il principale centro focale del film.
Jea-moon e Hae-hyo non si vedono né sentono da 28 anni. Erano amici inseparabili, ai tempi dell’università, compagni di bevute e di avventure, di serate e di reciproche confessioni, coreani in un estero vicino eppure lontano, diverso per lingua e per cultura. Ma, come troppo spesso accade, innamorarsi della stessa ragazza e traumaticamente perderla entrambi ha sancito la fine della loro amicizia. Oggi Hae-hyo (Kwon, attore feticcio di Hong e di recente protagonista dello straziante Hotel by the river), cinquantenne sempre più perseguitato dalle sue reminiscenze passate, gestisce una libreria di seconda mano a Seul, nella quale un giorno, dal nulla, entra la giovane So-dam per trascinarlo in un viaggio verso Fukuoka, città della gioventù e origine del trauma, dove Jea-moon, rimasto in Giappone e mai tornato in Corea, gestisce un piccolo bar. Per un incontro che inevitabilmente finirà per creare, con (altri) corpi che forse nemmeno sono corpi ma anime che vagano nell’intentato e mai davvero rimosso, quel triangolo forse impossibile d’amicizia e di affetto che ha così radicalmente riempito e segnato le vite dei due uomini. Un incontro che è inevitabilmente vaso di Pandora di sentimenti contrastanti pronti a deflagrare come una pentola a pressione tenuta sul fuoco per tutti quegli anni, ma che è anche, al contempo, la fucina di una dolorosa e sublime tenerezza, in cui come per magia (e di certo per purezza di cuore) ci si può capire alla perfezione anche parlando una babele di lingue differenti e mai studiate, in cui anche chi ha scelto da più di dieci anni il totale silenzio facendosi credere muto tornerà a parlare (in coreano) per dichiarare la sua capacità d’amare, in cui lo stesso libro e la stessa bambola saranno unità d’intenti e specularità fra sconosciuti, e in cui i tre protagonisti soffiano insieme sulla fiamma, ma la candela verrà spenta da un vento che giunge dall’altra parte del tavolo, o forse dal soffio di chi non c’è (più) ma è sempre stata presente e per sempre sarà nei loro pensieri, nelle loro amarezze, nei loro ripianti. Nei loro sentimenti.

Partendo dal più completo realismo per inserire, nell’incredulità degli altri protagonisti che diventa totale credibilità per lo spettatore, gli elementi fantastici e simbolici che quasi in punta di piedi porteranno a spalla le riflessioni, il senso, l’emotività e buona parte del fascino del film, Fukuoka insegna a lanciare il cuore oltre l’ostacolo. Insegna ad affrontare (e abbracciare) le ombre che tornano dal passato, insegna a riconciliarsi con se stessi e con gli altri, insegna a ritrovare il valore dell’affiatamento, della fratellanza, della condivisione. Insegna ad apprezzare gli incontri e la quotidianità, insegna a rendere possibile il miracolo. Con doppi e specchi, con corpi e anime, con pensieri, ricordi e fantasmi, bambole di pezza e suggestioni, traumi passati da superare e triangoli umani ed emotivi destinati ad allargarsi e poi a stringersi. O magari con donne cinesi incrociate su una panchina e con avvenenti e gentilissime venditrici giapponesi, con lunghi pianisequenza a mano e con bicchieri trangugiati, con telefonate nel cuore della notte e con quelle lacrime condivise che non possono che riportare indietro, all’abbraccio di un tempo. Magari, perché no, di fronte a un poster di Frances ha.
È un film di luoghi, Fukuoka, di spazi in cui fluttuare che si prendono la scena con le loro presenze invisibili e con le loro materiche assenze, di spiragli attraverso i quali osservare e pedinare i protagonisti incorniciati fra pile di libri e bottiglie sui banconi, e soprattutto è un film di esseri umani, di uomini e di donne che amano, soffrono, litigano, più o meno bonariamente si insultano, si perdono, si (ri)trovano, e poi si scoprono anticipati o seguiti da altri se stessi con la stessa facilità con cui entrano ed escono dalla trama.
Forse il loro doppio è la parte razionale, forse è l’anima, forse è un fantasma come unico possibile modo di confrontarsi con i fantasmi del passato. Forse è un sosia, forse è un’impressione sbagliata, forse è una complementarità, o forse è un sogno d’amore e di umanità fatto di scomparse e di apparizioni, di oggetti che passano di mano e di baci (im)possibili sotto la torre televisiva che, anch’essa, si cela nella nebbia e poi riemerge alla luce del sole. La stessa So-dam, così (eternamente) giovane e così ectoplasmica, così presente e così assente, così solare e così comunicativa, evidente proiezione di quel doppio amore passato che sta all’origine del turbamento, forse nemmeno esiste, eppure è proprio lei a condurre il gioco, a organizzare viaggi e incontri, a fare in modo che sia possibile superare quel non-triangolo sentimentale in un nuovo triangolo – o forse quartetto, o forse doppio duo – senza più segreti, senza più bugie, senza più gelosie, senza più ipocrisie, senza più rimpianti. Fino a quell’ultima chiamata che fa suonare il telefono della coscienza e risveglia Hae-hyo, ancora a Seul, nel suo piccolo negozietto di libri, in un ritorno a una distanza che ha finalmente eliso ogni distanza. Non gli resta che (ri)mettersi in viaggio.

Marco Romagna