FUGH INT I SCAPÀIN (2016), di Marco Landini e Gianluca Marcon
«[…] nelle balere estive
coppie di anziani che ballano
al ritmo di sette ottavi.
Gira tutt’intorno la stanza
mentre si danza, danza.
E gira tutt’intorno la stanza
mentre si danza.”[Franco Battiato, Voglio vederti danzare, 1982]
Mentre, a svariati chilometri da qua, continua il Festival di Cannes in una delle edizioni più divisive degli ultimi anni, noi arriviamo anche al Bellaria Film Festival, ormai giunto alla sua 35esima edizione. Festival documentaristico di grande importanza nell’ambiente romagnolo, suddiviso in due concorsi (Italia Doc e Casa Rossa Art Doc), il festival di Bellaria letteralmente non poteva aprirsi se non con Fugh int i scapàin, un mediometraggio di mezz’ora scarsa che prende il Bagno Corrado di Gatteo a Mare come punto focale, concentrandosi principalmente su una curiosa abitudine dei turisti e dei cittadini del paesino balneare in provincia di Forlì-Cesena: tradizionalmente, sin dall’inizio di giugno e poi per gran parte dell’estate, un gruppo di persone principalmente in età avanzata si reca al Bagno Corrado per ballare, dalle 6:30 del mattino fino alle 8. Sono balli di diverso tipo, dal valzer al tango, dalla mazurca alla polka, fino al ballo della gallina coniato dalla vivace protagonista ottantaquattrenne Antoinietta.
Siamo trascinati in un mondo in cui i limiti posti dall’età sembrano non avere senso, e nonostante si osservino sostanzialmente solo individui della terza età che parlano e ballano, Fugh int i scapàin ricorda tanto l’infanzia, la gioia senza tempo di un’età andata. I primi innamoramenti, l’epica di un qualcosa che sembra perdersi dietro lo schermo con un’intensità che lo schermo stesso non può replicare. “Fugh int i scapàin” letteralmente vuol dire “Il fuoco nelle scarpe”, ed è in un certo senso lo stesso fuoco che anima la Rimini plastico-storica dell’Amarcord (1973) di Fellini, anche solo involontariamente per la parlata dialettale, o le festività paesane di Festa (2016) di Piavoli: siamo piombati in una joie de vivre sincerissima, che diventa motivazione, per le carni apparentemente decadenti degli anziani, siano essere in un 4:3 sgranato o nel plumbeo HD del digitale, per rivivere la giovinezza, mandare a quel paese le convenzioni che il senso comune pone limitando i corpi da una certa età in poi. Alla semplice genuinità di questi balli liberi ed eccentrici, viene sovrapposta per pochi minuti la festività più giovanile sempre nei dintorni della spiaggia di Bellaria: massimalista, colma di luci e musica dirompente, piombando in una notte profonda in cui i volti sembrano perdersi attraverso il buio. Ma poi rispunta l’alba, continuano i lisci, continua a scorrere l’acqua e i vecchi continuano a risentirsi giovani.
Non c’è retorica nello sguardo di Landini e Marcon, che non cercano di creare una morale bensì cercano semplicemente di illustrare la naturale dolcezza di un ambiente, e non c’è neanche troppo il sospetto di un’operazione puramente provincialista per la Romagna. C’è forse anche troppa semplicità in ciò che viene mostrato, ma la macchina da presa si muove con una tale naturalezza, seguendo sia nel movimento sia nella fissità i piedi e i corpi di ballerini di età che vanno dai 40 agli 80 e rotti, che si rimane incantati da un qualcosa di davvero normale, disadorno, rustico. Le interviste ai vari personaggi magari sono solo analisi superficiali dell’atteggiamento generale, o scuse per trovare un divertimento che sconnette lo spettatore da quello che altrimenti sarebbe cinema diretto puro – ma le descrizioni dei contesti storici e della nascita di questa tradizione sono davvero spassose, e aiutano a comprendere meglio la necessità di questo fenomeno nell’immaginario di chi vi appartiene pienamente. Bisognerebbe forse re-imparare anche noi a vivere a prescindere dalle immagini cinematografiche, con esse, attraverso esse o senza di esso, danzando sotto il Sole che sorge, fregandocene della musica in sottofondo, che sia jazz anni ’20 o l’ultima hit estiva, che sia una canzonetta italiana dei bei vecchi tempi che furono o che sia un tango argentino. Muovendoci fluidamente nel blu dipinto di blu, tra una poesia in romagnolo e una fisarmonica sul palco di un cinema, che ci introduce in questo mondo, in questo festival, in una poetica essenziale, legata al vero, in cui immergerci in un’altra vita, forse, in un altro futuro.
Nicola Settis