FROST (2017), di Sharunas Bartas

Lo spettacolo non è un insieme di immagini, ma un rapporto sociale fra individui, mediato dalle immagini, […] una visione del mondo che si è oggettivata
Guy Debord

Con Frost, presentato alla Quinzaine des Réalisateurs di Cannes70, Sharunas Bartas torna a girare intorno al suo girare, con un film che si pone come indagine sulla possibilità del rappresentare, documentare, catalogare. A far da sfondo a questa storia minimale e ridotta all’essenza, il teatro di una guerra programmatica e costantemente (sempre più) evocata. Gli occhi sono quelli di due ragazzi lituani, Rokas e Inga, che attraverso la loro stessa esperienza sensibile (spesso sdoppiata e ampliata dai dispositivi tecnologici che utilizzano) vogliono guardare oltre le fonti di un conflitto mai realmente chiaro. Il loro sarà un lento e tribolato viaggio verso il fronte ceceno, offrendosi come volontari a fianco delle truppe ucraine che sono a presidiare la zona nel gelo di un confine. Nel caos (dis)organizzativo, negli incontri futili, nella dialettica mai retorica dello spostamento, ci sarà spazio anche per un amore abbozzato, fino all’avvicinarsi pian piano del punto di fuga, proprio dove l’invocazione diventa sempre più reale. Sembra unicamente lo spazio di un detour curioso e incontrollato nei tradimenti e nelle passioni ma, proprio sul finale, la guerra si farà materica e drammatica, piombo, sangue, rimpianti.

Nel contesto degli orrori di un conflitto giocatosi sulla simbologia ideologica di una terra già martoriata e luogo in cui macerano due popoli confinanti, Bartas si muove quasi in punta di piedi, nascondendosi nella struttura della strada come elemento narrativo portante e ricercando i frammenti di un senso della frontiera affrontato quasi per noia e nausea del reale che ci circonda. Nell’ambigua mancanza di consapevolezza storica dei protagonisti, l’autore lituano sceglie le angolazioni probabilmente più distanti, studiate e complesse del suo cinema, creando continue prospettive di uno sguardo perrennemente mobile, (s)montato e vibrante, che trova la propria sussistenza proprio in questa articolazione. In apertura i video del web che testimoniavano gli scontri di Piazza Maidan, così da vivere nell’essenza di uno spettacolo che non concede più nulla all’innocenza di un’immagine, ormai totalmente perduta e drammaticamente funzionale in qualsiasi sua sintassi. Proprio per questo l’immagine qui è sempre da verificare e da sperimentare (per gli autori, per gli attori ed anche per gli spettatori), come nella frattura della durata della scena in cui si crea un vortice tra la texture degli alberi che si fondono, veloci e decomposti, sul ciglio di una strada che corre veloce. È la lirica e fragile bellezza di un attimo, che sconvolge gli equilibri convenzionali della narrazione e che ne esalta le derive più mistiche e percettive nell’ambito del sublime.

Bartas mostra ancora l’artificio della costruzione di una finzione attraverso la caustica lucidità di un’immagine sempre più provvisoria e instabile, che continua a lambire il vuoto, scrivendo un’opera instabile e dai punti morti, in cui il coagularsi lento degli eventi e degli inserti si scioglie in uno spazio emotivo e attivo. I suoi coinvolgimenti ideologici e politici non parlano mai la stessa lingua del film, lasciando una reale distanza tra il vedere dei protagonisti e il nostro, rimanendo rigoroso nello sguardo utopico (anche sulla storia) di astrazione fisica e ontologica. Frost è un film che si distanzia dal cinema più catartico, primitivo e mentale di Bartas, e che crea quasi un’empatia con lo spettatore, lontano dalla sovrastruttura astratta ed elegiaca per una forma narrativa che restituisce l’idea di una scrittura. L’astrazione qui è legata a una guerra al confine tra l’indifferenza sociale e l’esposizione propagandistica, che crea nel finale i germogli di una specie di onirismo favolistico, destituendo il rigore delle intenzioni del soggetto verso un’empatia al cospetto della figura che cade nel paesaggio bianco, talmente provvisoria da giungerci irriconoscibile allo sguardo. A cosa servirebbe, dunque, per il nostro protagonista questo sacrifico? Per il senso e per il feticcio del documento, per aver sul proprio cellulare i fotogrammi/simulacro dell’altra parte di trincea. Forse proprio questo quesito è l’impalcatura di approccio di un autore così complesso ad un sistema sociale problematico e magmatico nella sua essenza disumanizzante. Ciò che resta è un processo enigmatico e disomogeneo, urgente e pulsante nella sua accezione espressiva. Nel senso della misticazione debordiana che definisce l’immagine, pare essere la realtà che sorge nello/dallo spettacolo, mentre lo spettacolo diventa reale. E il costo di tutto ciò, metaforico e non solo, sarà sempre più caro. Dovremmo rifletterci, probabilmente, prima di ritrovarci bloccati nella neve, assediati dagli spari, rassegnati all’inevitabile orrore.

Erik Negro