È ancora una volta la fittizia famiglia Vuillard, a muovere la macchina cinema di Arnaud Desplechin. Un fratello e una sorella, ma volendo anche il terzo fratello, i loro genitori e i rispettivi coniugi, che come nuovi tasselli umani di fragilità e deflagrazioni emotive si aggiungono ai protagonisti de I re e la regina (2004) e de I fantasmi di Ismael (2017), per portare avanti l’ennesima esplorazione familiare infinita a cui periodicamente ritorna la filmografia dell’autore francese – l’altra, quella sulla famiglia Dedalus, è in corso addirittura dal 1996 di Comment je me suis disputé… (ma vie sexuelle), per poi proseguire il suo cammino in Trois souvenirs de ma jeunesse (2015) e intrecciarsi con i Vuillard con il personaggio di Louis Garrel nel già citato Ismael. Del resto sono la materia più tipica di Desplechin anche il conflitto, le nevrosi, le derive sentimentali, e ancora il personaggio dello scrittore, l’attrice, l’impostazione teatrale, la parola che dalle pagine dei libri si fa direttamente sogno e messinscena: elementi con i quali, dopo la straordinaria parentesi noir di Roubaix, une lumière e la magnifica ‘traduzione’ (in)fedele del Philip Roth di Tromperie, è evidente il tentativo del regista di ritornare al suo cinema più riconoscibile e personale. Eppure in Frère et Sœur, in concorso a Cannes75 e prima reale delusione nell’edizione del Festival, il dispositivo di Desplechin sembra incepparsi, perdere il fuoco tanto sul cosa quanto sul come, con una narrazione episodica, slabbrata e priva di reale senso metaforico che lascia ben presto per strada, insieme alla credibilità, lo sviluppo psicologico e le reali motivazioni dei personaggi, e con un incedere rapsodico di virtuosismi stilistici e di picchi emotivi che finiscono in definitiva per risultare del tutto depotenziati dalla mancanza di un reale punto. Ci sono semplicemente Louis e Alice che si odiano e non si parlano da vent’anni senza nemmeno sapere il perché, forse divisi dall’invidia e dall’orgoglio per il reciproco successo artistico che inevitabilmente cambia le dinamiche di dominanza familiare, o forse paradossalmente divisi dal loro troppo amore e da una gelosia impossibile, anche se pure su questo Frère et Sœur sembra non sapere esattamente dove andare o per lo meno mancare del coraggio per affondare il colpo, con il tema dell’incesto che rimane solo suggerito, ambiguo, accennato, un riferimento quasi astratto e di fatto privo di carne e di reale desiderio anche quando i fratelli si ritroveranno insieme a letto nel prefinale, lei vestita e lui completamente nudo.
Ma andiamo per ordine. Perché parte bene Frère et Sœur, anzi benissimo. Con la veglia funebre per il figlioletto di Louis, con Alice che dopo anni e anni di silenzio si presenta alla porta senza avere il coraggio di entrare, con suo marito che invece incontra il cognato e ne viene malamente scacciato, «mostro indecente» che in sei anni non aveva mai conosciuto il bambino. Per poi spostarsi di altri cinque anni più avanti, con l’incidente stradale a cui assistono i genitori di Louis e Alice, con il loro accostare per prestare soccorso alla giovane, e poi con il camion che sulla stessa macchia d’olio perde il controllo e non potrà fare nulla per evitarli. Eppure è proprio qui, quando l’ormai eremita di campagna Louis viene richiamato in città per gli ultimi giorni del padre grave e della madre in coma, che dopo solo una manciata di minuti il film paradossalmente finisce, perdendo progressivamente plausibilità e motivazioni, spessore psicologico e tenuta narrativa. A partire da un qualcosa che arriva da fuori dal campo, dal momento della definitiva rottura fra fratello e sorella che solo qualche flashback tenterà parzialmente di ricostruire, con l’intera famiglia che in sostanza, al di là di una timida richiesta del padre di tornare a incontrarsi, sembra non avere mai fatto o quasi una piega per il loro detestarsi apparentemente immotivato, scegliendo di fatto di assecondare il capriccio di Alice e di emarginare Louis incontrandolo per più di vent’anni, anche nel momento in cui entrambi i genitori sono in fin di vita in ospedale, solo separatamente dalla sorella. Del resto a lei, con un paio di soluzioni ai limiti dello scult, basta che qualcuno lo nomini durante un’intervista perché inizi a uscire copioso il sangue dal naso, e basta intravvederlo in fondo alla corsia d’ospedale per svenire nel bel mezzo del corridoio. Come pure sono ai limiti dello scult la scena in cui a lei crollano i nervi in farmacia, fra depressi sovradosaggi di tranquillanti e urla al malcapitato inserviente, o i voli lebowskiani sulla città di lui strafatto d’oppio fino alla camera d’ospedale della madre, o ancora il loro (primo) incontro/scontro al supermercato, prima con i carrelli e poi inavvertitamente con le fronti. Del resto, se è vero che da parte dello scrittore non mancherà qualche pur timido e contraddittorio tentativo di riconciliazione con la sorella fra lettere, emissari e album di fotografie, non sembra esistere alcun climax per giungere al bigliettino con cui Alice cambierà improvvisamente idea dando appuntamento per l’indomani mattina al fratello. Appare semmai come una brusca forzatura narrativa che in qualche modo anticipa di qualche minuto i finali tagliati con l’accetta, definitivo inabissarsi nell’autoparodia di un film non particolarmente ispirato e ancor meno riuscito, del tutto inatteso scivolone – può capitare a tutti – di quello che resta uno dei principali autori contemporanei.
Certo, resta l’ottimo incipit, resta, quasi a richiamare Tromperie, il libro con cui Louis «ruba» il nome della sorella per «umiliarla pubblicamente», restano le lettere recitate direttamente guardando in macchina e resta il volto di un figlio che non c’è più da ritrovare in quello del nipote, così ambiguo fra la poetica di un padre straziato e il dubbio velato che la somiglianza non sia poi così casuale, ma possa essere dovuta a una parentela ancora più stretta. Così come restano le pitture rupestri che Louis visita in un flashback con la moglie Faunia, resta lo strazio delle due bare dei genitori ancora insieme prima in chiesa e poi al cimitero, e resta il dialogo “impossibile” a distanza quando Louis è invitato dall’amico ebreo Zwy in Sinagoga e Alice è sul palco a recitare un adattamento di Gente di Dublino, da una parte la Torah che invita a «coprire le nudità dell’uomo» e dall’altro il testo tratto da Joyce (via John Huston) che risponde invece di «proteggere l’amore». Ma non può bastare una sparuta manciata di sequenze riuscite per ritrovare le fila di un film insospettabilmente vacuo e appannato, che al nitore di sguardo e alla caratterizzazione certosina dei Vuillard (e non solo) precedenti sembra preferire un’esibizione un po’ fine a se stessa di lacrime, scene madri e autoassoluzioni borghesi. Come quando Alice decide di raccontare tutta la sua vita alla giovane e poverissima ammiratrice rumena che si presenta ai suoi spettacoli, come quando decide di aiutarla e comprarle da mangiare come per lavare via con un singolo gesto le colpe di un’intera classe sociale, o ancora peggio nel falso progressismo à la Walter Veltroni dello sconclusionato e rivedibilissimo finale in Africa, dove si è trasferita abbandonando d’un colpo vita precedente, teatro, marito e figlio, mentre il fratello dopo non essersi suicidato ha scelto la via dell’insegnamento e declama poesie in classe. Il risultato è un film inerte, che non riesce realmente ad approfondire il rapporto di forza, amore, odio e sottomissione che mette in scena, perso fra personaggi non caratterizzati a dovere (non solo la debolezza metaforica dei protagonisti, ma anche il terzo fratello omosessuale Fidéle risulta poco più che funzionale al suo ruolo di trait d’union, così come i vari mariti, mogli, nipoti e amici che entrano ed escono dalla scena), potenziali spunti di interesse di fatto sprecati (il teatro, la letteratura, le forme cinematografiche) e soluzioni narrative spesso frettolose e talvolta pretestuose (Louis che rinfaccia senza reale motivo al figlio di Alice le colpe della sorella, il corpo in coma e in ischemia della madre come metafora a grana grossissima della distruzione della carne, ma anche la morte del padre che si alza di notte staccandosi da solo le flebo per andare a collassare in corridoio). Eppure rimane una certezza. Che torneranno ancora i Vuillard, torneranno i Dedalus, e non è da escludere che prima o poi si ripresenti su uno schermo anche qualche altro Bloom. Perché tornerà Arnaud Desplechin, quello vero, quello che abbiamo imparato da tanti anni ad amare e a considerare un gigante della contemporaneità. Basta aspettare il prossimo film. Sarà senz’altro di nuovo bellissimo.
Marco Romagna