FREAKS OUT (2021), di Gabriele Mainetti
Non sta solo nella rappresentazione un po’ insultante dei partigiani come una banda di mostruosi pseudo-criminali, rigorosamente provenienti dal profondo sud e immancabilmente brutti sporchi e cattivi fra il guercio, il gobbo e lo zoppo, il problema di Freaks out. È una scelta – cinematografica ma anche politica – particolarmente fastidiosa, così come risultano particolarmente irritanti l’utilizzo che viene fatto di Bella ciao e la citazione un po’ insolente del camera car di Roma città aperta, ma sono in definitiva solo le punte dell’iceberg, gocce ulteriori, o al massimo l’increspatura dopo l’impatto di un sasso, in un mare di limiti ben più radicati e profondi. Anzi, in qualche modo l’idea che un mondo invaso dai nazisti possa essere salvato da soli freaks con ma anche senza superpoteri, per quanto banalotta e priva di originalità, non è nemmeno del tutto priva di senso. I motivi della riuscita al limitar del disastroso dell’attesa opera seconda di Gabriele Mainetti dopo l’inedita apertura al supereroistico italiano di Lo chiamavano Jeeg Robot stanno in realtà molto più a monte, nella natura di un’operazione tanto ambiziosa e costosa da perderne il controllo, fino a trasformare un kolossal di genere, che vorrebbe innestare nella Roma occupata dai nazisti un Inglourious Basterds di X-men circensi per ritrovarsi idealmente da qualche parte fra Balada triste de trompeta e I fantastici quattro, in un pastrocchio troppo impegnato a ostentare il budget faraonico e i continui effetti speciali per ricordarsi la necessità della tenuta narrativa, della caratterizzazione dei personaggi, dell’economia del racconto. Un progetto indubbiamente coraggioso, sia ben chiaro, di fatto alieno al cinema nazionale nel suo budget faraonico e nel suo guardare apertamente al cinefumetto e alla Marvel rimanendo però, come già Jeeg Robot, saldamente ancorato a una Roma di borgata. Ma anche un progetto consapevolmente rischioso, per le tematiche storiche che vuole lambire e per la grandeur con cui le mette in scena, per i riferimenti cinematografici che a partire dal capolavoro di Tod Browning vuole rievocare e per la visionarietà troppo spesso confusionaria (in testa la battaglia pressoché incomprensibile che attanaglia il prefinale, ma in realtà anche lo strangolamento che vorrebbe ricordare l’Hans Landa tarantiniano e invece ne sembra più una parodia, o ancora gli evidenti paralleli fra l’elettrica Matilde e la Dorothy de Il mago di Oz) con cui li cita. Non basta questa volta la capacità di osare, non basta l’ostinata cinefilia, e non basta nemmeno il tentativo – oggettivamente importante – di portare nei ristretti orizzonti produttivi italiani un qualcosa di realmente nuovo, per riuscire a difendere un film sbagliato forse sin dal progetto iniziale, elefantiaco per eccessiva durata e bulimia di situazioni non perfettamente legate, affossato da una scrittura sommaria e da personaggi senz’anima, e probabilmente peggiorato nel corso della postproduzione a ogni tentativo di metterci una pezza.
Basterebbe ritornare con la memoria a quell’iniziale annuncio per la Festa del Cinema di Roma 2018, prima di quella serie di rinvii che hanno portato Freaks out in concorso solo a Venezia 2021, dopo quasi tre ulteriori anni di ripensamenti, rimontaggi e infinite revisioni. Come se lo stesso Mainetti, verrebbe quasi voglia di dire a costo di essere cattivi, si fosse reso conto in corso d’opera di come il suo film non funzionasse, troppo schematico e telefonato in una sceneggiatura contraddittoria e scarsamente credibile fra buchi, salti e approssimazioni, troppo sbrigativo nella caratterizzazione di personaggi che non riescono mai a essere nemmeno vagamente tridimensionali, troppo funzionale in singoli passaggi che si concentrano tanto sull’esibizione dell’effetto speciale da perdere la visione d’insieme. Se il potere dell’Uomo Lupo sotto il cui costume simil-Chewbecca arranca uno svogliato Claudio Santamaria è una forza che sin dalla prima sequenza gli fa piegare le sbarre di una gabbia, per esempio, perché non prova nemmeno a liberarsi appena catturato? O ancora, perché i prigionieri ebrei non scappano durante l’attacco dei partigiani ai nazisti, ma rimangono come inebetiti sulla camionetta fino a quando il mezzo non riparte? E chi sarebbe quel personaggio tedesco che entra nel film all’improvviso, fa uno spiegone sul ruolo e le ambizioni del cattivo Franz e poi sparisce nel nulla? Fino alla sostanziale “onda energetica” di fuoco finale, in cui muoiono fulminati tutti i cattivi tranne il principale villain da giustiziare a parte, lasciando invece vivi e vegeti tutti gli eroi e i partigiani che si trovano esattamente sullo stesso confuso campo di battaglia, e che a differenza di Indiana Jones nel già problematico finale de I predatori dell’Arca perduta nemmeno si premurano di chiudere gli occhi per proteggersi in qualche modo dalla violenza della resa dei conti. Personaggi capaci rispettivamente di comandare gli insetti, di una forza sovrumana, di un potere magnetico e di generare elettricità, ma che di fatto non sanno né quale sia il modo o il motivo per cui li hanno ottenuti – elemento da sempre cardine e imprescindibile del supereroismo a fumetti, fra la ‘normalità’ di Krypton e il morso del ragno radioattivo, passando per il bidone di rifiuti tossici che non apriva lo stesso Jeeg Robot – né esattamente cosa farsene, nemmeno nel momento in cui diventano necessari. Preferiscono attirare l’attenzione in una captatio benevolentiae di bacarozzi a forma di svastica, preferiscono calamitare forchette e cucchiaini, preferiscono limitarsi ad accendere qualche lampadina. E anche l’unico reale tentativo di stratificazione psicologica di Mainetti e Guaglianone, con il racconto di quel trauma e senso di colpa passato per cui la donna elettrica Matilde, fra tutti la vera eroina protagonista nel suo non smettere di cercare il vecchio Israel proprietario del circo e nel suo fondamentale ruolo al momento dello showdown finale, non vorrebbe usare il suo potere come arma, finisce per esaurirsi nel giro di un paio di battute e di momenti, come l’ennesima tematica suggerita e non sviluppata nel caos narrativo di un percorso che saltella fra gli strappi, in qualche modo fagocitato dalle sue stesse ambizioni.
Del resto, come già in Jeeg Robot, ma con un Franz Rogowski già attore feticcio di Petzold che nemmeno prova ad avvicinarsi al livello dello strepitoso Luca Marinelli di qualche anno fa, a Mainetti interessa molto più il cattivo della scalcagnata compagnia di buoni, circensi di fatto solo per la sequenza che in apertura presenta i loro poteri prima che l’irrompere della guerra li trasformi in superficiali supereroi, mentre il nazista Franz, psicopatico direttore del concorrente circo e pianista con dodici dita che sotto etere vede e disegna il futuro senza che però nessuno gli creda, ha per lo meno ben chiaro il progetto di cambiare il destino e la futura Storia della caduta e di Norimberga, creando un esercito di superuomini da regalare a Hitler con cui vincere la guerra. Anche la sua caratterizzazione tuttavia, fra uno sguardo al futuro che passa attraverso lo schermo di un iPhone 3 e le (irritanti) esecuzioni scimmiottate al pianoforte di Creep e Sweet child of mine, fra una storia d’amore che poco c’entra con la crudeltà del personaggio e le continue vessazioni a cui gli altri nazisti compreso il fratello lo costringono, fra la ridicola vocina fanciullesca e la leadership non particolarmente spiccata, soffre di soluzioni spesso ineleganti e poco credibili, di eccessiva schematicità e di non pochissime incongruenze, che sostituendosi a quella che sarebbe stata la necessaria ambiguità lo tengono ben lontano dal potenziale fascino che un simile personaggio dovrebbe portare in dote. Come se contasse solo la superficie della soluzione a effetto (speciale), la citazione dei film preferiti, l’ostentazione di un immaginario e della forma (per quanto a sua volta anche questa a tratti problematica, fra l’invasività delle musiche e qualche raccordo di montaggio non particolarmente fluido per senso, per linguaggio o per imprecisione tecnica). A costo non solo di tralasciare la profondità del contenuto, ma anche di minare la solidità del mero congegno narrativo, la sospensione dell’incredulità, l’interesse, l’empatia. Certo, rimane qualche sporadico bel momento, la sequenza iniziale, l’arrivo dei super-protagonisti al circo nazista, il loro attacco più o meno casuale e improvvisato al treno. Eppure Freaks out, semplicemente, non c’è, come distratto dai suoi stessi gadget a forma di svastica, smarrito nelle sue ricostruzioni storiche, confuso nel suo procedere a singhiozzo, frammentato nella sua pletora di personaggi e forse non ancora del tutto maturo nella regia di un Gabriele Mainetti che, forse inebriato dal successo dell’esordio o forse semplicemente colpito da un attacco di ὕβϱις, si è lanciato in un’impresa spielberghiana che per ora parrebbe – banalmente – essere troppo più grande di lui. Distante anni luce da quella semplicità genuina che, con i suoi pregi ma anche i suoi difetti, con le sue intuizioni ma anche con la passione che, specialmente nel finale, deflagrava dalle sue raffazzonature, era la forza travolgente dell’antagonismo di Jeeg Robot, e che invece ora sembra solo un lontano ricordo. Purtroppo.
Marco Romagna