FREAKS (2018), di Zack Lipovsky e Adam Stein

Una manciata di location e un uso intelligente della CGI a simulare un budget ben più alto, un cast coeso e sorprendente fra Bruce Dern, Emile Hirsch e la piccola e bravissima Lexy Kolker, la capacità di creare tensione e di garantire almeno un paio di salti sulla poltrona, una detection efficace nel creare un fitto alone di mistero nel quale svelare a poco a poco chi siano effettivamente i protagonisti ribaltando progressivamente la loro funzione, un’iconografia quasi biblica nelle lacrime di sangue che sono al contempo forza, bersaglio, verità e bugia, la capacità di cambiare tono e genere fra sci-fi, thriller e horror alleggeriti da non pochi spunti comici, un ben preciso ragionare sullo spazio e sul tempo fra bolle e (s)materializzazioni e non certo in ultimo un sapido uso della vecchia metafora sempre buona del supereroe come diverso, e quindi emarginato da una società dall’indole traditrice, fobica e razzista, con tanto di sostanziale campo (o meglio «Montagna») di concentramento/sterminio e di assortite sparatorie urbane. Sono ottime le premesse di Freaks, esordio al lungometraggio in co-regia del canadese Zack Lipovsky e dello statunitense Adam Stein che arriva al Trieste Science+Fiction 2018 a stretto giro di boa dalla primissima dello scorso Toronto. Ed è ottimo pure l’incipit, con la piccola Chloe da sempre segregata e «non ancora abbastanza normale» per poter abbandonare la casa, con un padre paranoico che continua a parlare del rischio di essere uccisi fino a dare corpo alle sue ossessioni beccandosi qualche pallottola, con le visite ectoplasmiche alla bambina durante la notte nei ripostigli, e poi con l’arrivo del misterioso carretto dei gelati che scoperchierà il vaso di Pandora. Ma se la messa in scena, per tutto lo scorrere del film, mai smette di essere efficace nei suoi movimenti spesso di rotazione intorno ai protagonisti e nei controcampi spazio-temporali, a scoprire il fianco di Freaks sono la scrittura e la narrazione che a lungo andare perdono forza, coerenza e – grave limite quando ci si inoltra in territori fantascientifici e soprannaturali – credibilità.
Ed ecco che, nell’ultima sezione, quando viene a mancare l’elemento di detection ma è ormai chiaro lo scacchiere, l’isolamento dei protagonisti, la loro segregazione e le loro torture subite finiranno per suonare quasi come una contraddizione nel passato e nel presente della famiglia fantastica, fatta di superpoteri crescenti di generazione in generazione. C’è il nonno invisibile, c’è la mamma volante, c’è il padre in grado di rallentare il tempo esterno e c’è una figlia in grado (non solo) di entrare nella mente, di vincere la volontà degli esseri umani, di piegarli ai propri capricci. Poteri che in potenza potrebbero portare a controllare il mondo, e che in effetti nella finzione cinematografica sono esattamente ciò che ha portato i sostanziali mutanti, «gli anormali», i «freaks», a essere considerati pericolosi alla stregua di armi e ad essere internati e uccisi dagli umani. Quello che non torna, però, è come è possibile che questi Mostri/supereroi, o forse unici normali in un mondo malvagio, abbiano permesso alla mediocrità dell’uomo “normale” di sopraffarli. Quello che non torna è come l’obiettivo di chi è evidentemente più potente possa essere nascondersi e non sferrare il contrattacco, arrendersi e non difendersi. Certo, c’è la protezione paterna nei confronti della bambina, c’è la necessità (riuscita solo in parte) di educarla all’utilizzo dei suoi poteri senza diventare un’arma per il malvagio, c’è l’elaborazione del (non) lutto in cui la bolla è forse l’unico possibile rifugio, ma probabilmente non basta per giustificare tutti gli sbrodolii narrativi e di immaginario che si annidano nella seconda parte a offuscare di qualche nube le pur tante luci di Freaks, brillante per idee alla base e per talento, ambizioso, pensato, avvincente, girato con soluzioni intelligenti nel fare delle non infinite potenzialità economiche un valore aggiunto, eppure non del tutto riuscito. Non fino in fondo, per lo meno.

Fra i suoi principali spunti di interesse, Freaks riflette sull’identità e ribalta il concetto stesso del “mostro” abbracciando il suo punto di vista, la sua consapevolezza di essere “anormale” senza però sapere che cosa sia la “normalità”, e poi la sua progressiva immersione nel retroterra fantastico e fantascientifico che, fra la vita e la morte, fra il miracolo e l’omicidio, accompagna lo spettatore nella soluzione del mistero. «Si nascondono fra di noi», recita impietoso il manifesto all’entrata della città con la lacrima di sangue che solca la guancia del giovane e inquietante “freak”, e a poco serve chi nelle immagini televisive che scorrono sotto le cuffie cerca di chiamarli «anormali», senza l’accezione negativa. Basta una goccia di sangue dall’occhio per sparare a vista, e non importa se si tratta della ferita di una persona normalissima, priva di poteri. Come non importa nemmeno se il “freak” ha centinaia di migliaia di dollari in mazzette in una stanza: neanche il denaro può salvare dalla (in)giustificata paura. Basta una veloce indagine per scoprire le evidenti prove dell’anormalità, e a poco serve cancellare dal volto le tracce di sangue con l’acqua ossigenata: la verità prima o poi sarà destinata a emergere, e a portare verso l’inevitabile epilogo. Così come prima o poi emergerà la verità sulla madre di Chloe, non realmente morta ma ancora segregata e torturata, innescando la corsa della bambina che, con i suoi poteri ormai più forti dello spazio, riuscirà a salvarla e a permetterle di distruggere il luogo di sterminio. Magari passando per il sacrificio finale di chi ha passato tutta la vita a sacrificarsi per amore, non più paranoico carceriere ma semplicemente padre, o nonno, con tutto quello che essere padre e nonno può comportare.
Zack Lipovsky e Adam Stein tengono le redini fra ribaltamenti narrativi e uno stile filmico di dettagli, contrasti, controluce e figure che emergono dall’oscurità. C’è la silhouette della mano che si avvicina alla buca delle lettere, c’è la torcia che mostra come nel tremante sgabuzzino non ci sia altro che un sacco a pelo, ci sono silenzi e travestimenti da prete, ci sono piani oscuri, ci sono litigi, e ci sono auto che arrivano in corsa da cui essere salvati giusto in tempo. Fra lente carrellate in avanti e movimenti a schiaffo verso quello che è l’origine della paura e poi della speranza, Freaks crea una ben precisa inquietudine, prima quella del mistero, e poi quella della pur narrativamente problematica corsa contro il tempo, spartita fra i montaggi alternati che intrecciano un piano dell’abitazione con l’altro e la caricaturale ridicolaggine dell’energumeno posseduto da Chloe che risponde affettuosamente «ciao mamma». Freaks mette in scena la paranoia, il terrore, l’isolamento, la segregazione, il tempo da tenere fermo, e poi l’apertura, con (un incipit nettamente migliore di) The room che diventa tensione quando il vecchio gelataio invita la bambina a salire sul suo carro, per poi evolversi in un sostanziale Gli incredibili dalle venature tragiche e violente ripassando per il concetto degli X-Men percepiti dai “normali” come nemici semplicemente per il loro essere estranei alla massa. Per Chloe, entrare per la prima volta da “diversa” in un mondo ostile aprirà a una spirale crescente di insistenze sempre più potenti, di esche e di resistenza, di possessioni e di uccisioni per non essere uccisi. E sta qui il paradosso: per rispondere alla violenza dell’uomo e all’istinto di sopravvivenza, i mutanti a cui interesserebbe più o meno solo una reciproca convivenza si trovano costretti a esibire tutta l’effettiva pericolosità dei propri poteri, tutta la loro natura di armi di distruzione di massa, tutta la loro spietatezza nel prendere possesso di chi sta puntando contro di loro la pistola per rigirarla in un omi/suicidio. Magari passando da un padre minacciato con un trapano. Anche a sette anni, perché il mondo è violento, e perché salvare la vita a una mamma è molto più importante che rimanere nascosti in attesa che muoia fra atroci tormenti. Certo, rimane il rammarico per una scrittura che, nelle sue evoluzioni, non riesce a mantenere anche dopo il passaggio dal mistero all’azione lo stesso livello della prima parte, rimane il rammarico per qualcosa che non torna fino in fondo, rimane il rammarico per le scelte che nella seconda sezione vanno a scalfire la credibilità, e quindi le metafore che il film incarna. Ma rimane tutto il resto, rimane la sospensione del fiato della prima parte, rimane il chiaro talento di Lipovsky e Stein, rimane il loro lavoro sugli indizi e sulla progressiva soluzione dell’arcano, rimane la loro capacità di costruire storie e metafore in grado di ragionare compiutamente su argomenti importanti e stratificati. E questo, in attesa di seguirne con interesse i prossimi lavori e la probabile definitiva maturazione, non è affatto poco.

Marco Romagna