FRANTZ (2016), di François Ozon
Tra i film in concorso a questa edizione del festival del cinema di Venezia uno dei più attesi (e soprattutto: uno di quelli che ha diviso di più pubblico e critica) è stato il nuovo film di François Ozon, Frantz, melodramma prevalentemente in bianco e nero ambientato nel 1919. Devo partire da un presupposto che riguarda la mia percezione soggettiva del film, prima di dedicarmi ad un commento su di esso: Ozon è un regista che non conosco, è un regista di cui ho sempre sentito parlare ma di cui, prima di Frantz, ho visto solo un altro film (Gocce d’acqua su pietre roventi, 2000), un autore che ho sempre connesso mentalmente al cinema di stampo LGBT ma che non ho mai voluto davvero conoscere; probabilmente per un limite personale. Tra i suoi fan di vecchia data, c’è chi ha amato Frantz e c’è chi non l’ha sopportato. Poiché la recensione cinematografica è (o dovrebbe essere) una guida analitica più che una visione superficiale o un’alternativa più chic al semplice consiglio/sconsiglio da dizionario Morandini, mi sento in dovere di essere onesto nei confronti di questa mia mancanza cinematografica, anche per far capire a chi legge che tipo di sguardo qui ha provato a capire Frantz, e quindi inevitabilmente (forse) che tipo di sguardo può apprezzare meglio Frantz, interiorizzandolo, vivendolo, comprendendolo come ho provato a interiorizzarlo, viverlo, comprenderlo io.
L’inquadratura d’apertura del film di Ozon ci porta subito in una dimensione di Heimat-iana memoria, con un villaggio teutonico visto in lontananza in cui tutti si conoscono e tutti sono uniti (tanto nel sangue quanto nell’orientamento politico), mentre in primo piano un ramo fiorito coloratissimo sembra già rievocare una dimensione altra, lontana dalla realtà umana, una bellezza che è quella della natura quanto dell’arte, dei rami di ciliegio del Van Gogh nippofilo. Questa storia post-bellica comincia poi, affondando in un bianco e nero sobrio e semplicissimo, con l’enigma della morte di Frantz sul fronte in Francia: il giovane soldato, dopo essersi innamorato di Parigi, è deceduto in guerra nelle trincee, e la moglie Anna (bellissima protagonista del film interpretata da Paula Beer, e soltanto la prima di una serie di personaggi dai nomi forse involontariamente bergmaniani) abita ormai coi genitori di lui, nell’ombra e nella memoria di lui, poggiando ogni giorno fiori sulla sua tomba; finché un giorno non compare il fascinoso Adrien, francese un po’ goffo e patetico ma dotato di un profondo fascino da artista o da personaggio di film noir, un personaggio scritto insomma abbastanza bene da riuscire a non far pesare l’apparenza dell’attore Pierre Niney, qui più che mai simile ad una sorta di incrocio tra Adrien Brody e Fabio Rovazzi. Adrien piange ogni giorno sulla tomba di Frantz, ogni tanto bussa alla porta dei coniugi Hoffmeister, prima scappando poi entrando, interagendo, sostituendosi a Frantz, creando una sorta di morbosa e malata sostituzione del cadavere — forse è il suo amico, forse il suo amante, forse il suo assassino, il dubbio rimane per più o meno metà film, esprimendo solo una sorta di sconforto fisico nel dilemma interiore di Adrien. L’amicizia che diventa sostituzione, l’attaccamento che diventa necrofilia, il bianco e nero che esprime un mondo capace solo di vivere nella memoria e mai nel momento, tant’è che il colore ritorna solo nel ricordo, positivo o negativo che sia, vero o falso che sia (ormai, tra i vari giochi di scatole cinesi che attanagliano lo studio della sceneggiatura da Kurosawa in poi, sappiamo che il fatto che lo spettatore veda una sequenza analettica non significa che quella sequenza sia accaduta veramente nella finzione scenica del caso). Il colore ritorna quando ritorna l’amore, quando ritorna il tempo, quando ritorna ciò che viveva solo attraverso Frantz. Il film pian piano diventa sempre più rilassato nei toni, tragico nella narrazione e irrealistico nella psicologia dei personaggi, delineando una visione a tutto tondo di una storia d’amore impossibile e incredibile, in cui probabilmente Anna è solo innamorata di un Frantz che è proiezione di sé stessa, un doppio; come poi Adrien è un doppio di Frantz, e Fanny un doppio di Anna, e François un altro doppio sia di Adrien che di Frantz, e l’uomo sul finale una sorta di Adrien alternativo, ricreando il romanticismo ai limiti dell’inevitabile bugia drammatica in una sorta di spirale che non si conclude mai, senza alcuna certezza, né politica né psicologica: è tutto un mentirsi addosso, a fin di bene, a fine di immagine. Come si dovrebbe sentire una vedova di un soldato tedesco dopo la prima guerra mondiale a sentire un gruppo di ex-militari ubriachi cantare emotivamente La Marsigliese, inneggiando ai fiumi di sangue crucco nelle trincee, ricordando un tipo di gloria che il paese di Wagner non ha avuto? La soggettiva-oggettiva non è solo il campo-controcampo dei personaggi (o del volto di Anna sul quale si riflettono le rovine attraverso il vetro del treno) ma è anche un campo-controcampo culturale, in cui Anna è destinata a ridiventare Adrien, Adrien è destinato ad essere una sorta di Frantz alternativo che deve sopravvivere un po’ più a lungo, François è destinato ad essere il Frantz francese, Fanny è destinata ad essere uno specchio innocente e più fortunato in amore di Anna. Germania, Francia, di nuovo Germania; e poi anche figlio, amante, e poi genitore, figura di supporto o figura spenta incapace di distinguere realtà da finzione, o manipolatrice che tortura (involontariamente ma spudoratamente) la prole nell’ostentata non-comprensione del dramma della memoria.
Diventa, quella di Anna, una specie di “ricerca del tempo perduto” (mi passiate il riferimento proustiano) tra le pieghe di un passato non suo ma che sente come proprio, come in una tragedia post-bellica in cui tutti si possono rispecchiare in tutti, finché c’è comprensione dell’universalità della violenza e della brutalità del crimine che è la guerra stessa. Il pacifismo, la musica, uno struggente violino che si interrompe tra un risveglio e uno svenimento, due anime unite da un tentato suicidio nello stesso lasso di tempo. Remake sui generis di L’uomo che ho ucciso (1932) di Ernst Lubitsch, che però si concentrava sul punto di vista dell’uomo e aveva una conclusione diversa e più affrettata, a sua volta tratto da un dramma teatrale di Maurice Rostand, Frantz è tristemente seducente come il personaggio che dà il titolo al film, Frantz vuole far vivere parlando di morte, Frantz è come “quel quadro di Manet con il giovane con la testa rivolta all’indietro”: ci si siede davanti, lo si guarda, lo si commenta, si vive, ci si emoziona.
Nicola Settis