FRANKENSTEIN: it’s a live! – Gli OvO sonorizzano FRANKENSTEIN (1931), di James Whale
«It’s alive!», «è vivo!», grida il dottor Frankenstein di fronte alla sua Creatura quando questa, portata in vita dai suoi studi e dall’elettricità, apre per la prima volta gli occhi. È una delle frasi più note nella storia del cinema, una di quelle, citate e parodiate da quasi 90 anni dal «Si può fare»1 in giù, immediatamente in grado, da sola, di evocare un intero immaginario. Ma se si ha voglia di sperimentare è anche una frase che, come quasi tutte le frasi del Frankenstein (1931) di James Whale, può tranquillamente essere coperta dalla ricerca e dall’avanguardia musicale, e proprio così trovare una sua nuova dimensione, una sua nuova e piena modernità. Da «it’s alive!» a “it’s a live”, da “è vivo” a “dal vivo”, “in concerto”. Anche a costo di far fare al film un piccolo salto temporale all’indietro, dagli albori gotici del cinema sonoro alle forme (ancora fortemente) espressioniste del cinema muto, usando i sottotitoli come fossero i cartelli delle linee di dialogo e sancendo così ancora una volta la piena atemporalità di un capolavoro come Frankenstein, il suo eterno essere attuale e ancora sorprendente nelle forme e negli assunti. Non è la prima volta che un film del passato viene sonorizzato dal vivo non con gli strumenti della musica classica sinfonica o jazz, ma con la modernità del noise e dell’elettronica, del doom metal e del punk, dell’industrial e della new wave, del controllo sonoro dei Larsen e dei sintetizzatori. E del resto qualche anno fa pure gli stessi OvO, duo ravennate attivo fin dal 2001 con il suo stile inclassificabile che attraversa generi fino a trovare un personalissimo e originale impasto sonoro fatto di controllo rumori e inaspettate linee melodiche di loop e delay, avevano già sonorizzato a modo loro il Nosferatu (1922) di Murnau, dimostrandone così la completa inscalfibilità di fronte all’usura del tempo. Con Frankenstein: it’s a live, eseguito in apertura del Trieste Science+Fiction 2018, il loro lavoro teorico si spinge tuttavia ancora più in là, intervenendo a sonorizzare un film già sonoro, a sostituire una pista di cui vengono lasciati udibili giusto il prologo, il finale e la spiegazione sui cervelli normale e anormale, e a rielaborare così in un certo senso le forme di tutto il film evolvendole in qualcosa di nuovo, che affonda le radici in un passato (cinematografico) ancora più remoto per spingersi con lo sguardo (musicale) verso un futuro ancora tutto da scoprire. Un po’ come se questo ponte fra passato e futuro, a sfidare la monoliticità di una pellicola incapace di invecchiare rilanciandola in nuove forme di ricerca e sperimentazione, ne costituisse l’eterno presente. Lo stesso delle immagini e delle forme di James Whale. Lo stesso della sua certosina costruzione dell’inquadratura e della sua minuziosa attenzione a ogni dettaglio, a ogni profondità di campo, a ogni fluidità di movimento. Lo stesso delle sue riprese mobili e spesso di sbieco, accompagnate a una recitazione espressiva di occhi sgranati e di sguardi truci. Lo stesso del trucco su Boris Karloff che ha segnato per sempre l’iconografia di ogni mostro e dell’intera storia del cinema. Lo stesso del laboratorio di enormi macchinari e bobine di Tesla in cui si sempre è mosso ogni scienziato pazzo. Lo stesso di quel primo e unico (e tragico) barlume di umanità della Creatura di fronte ai giochi della bambina.
Bruno Dorella monta la sua inedita batteria a destra dello schermo, Stefania Pedretti, i rasta lunghi fino al pavimento, sistema chitarra, amplificatore e fitta pedaliera a sinistra. Guardano il film insieme al pubblico, lui con una mano sulla drum machine e l’altra sul suo set composto da rullante, timpano, charlie, crash e soprattutto un pad elettronico multiplo Roland che funge da sintetizzatore, e lei con la sua chitarra, il suo microfono, i multieffetti, il vocoder, la loop machine. E ovviamente due cucchiai, perfetti archetti nel modulare e controllare i suoni della chitarra, i suoi stridori, i suoi fischi ora dolenti, disperati, e ora fieri e rabbiosi. Come del resto a un certo punto spunta fra le mani di Bruno Dorella un misterioso lamellofono dal suono metallico eppur vibrante, quasi come se le punte di metallo fossero delle vere e proprie corde. Quella degli OvO è da sempre una ricerca musicale di strumenti bizzarri e semplici, da poco, o addirittura di oggetti della quotidianità – un rasta, magari – riscoperti come vere e proprie fonti di rumore. Fra suoni sintetizzati e campionati, arpeggiatori e delay, è dai pad elettronici – e quindi da una batteria che contiene anche basso e tastiere – che nascono di fatto tutte le linee melodiche, mentre la chitarra si concentra sulla parte armonica, sui tappeti e sui muri di suono, della costruzione di atmosfere a partire dal rumore, dal noise, dal metallo, dall’industrial. È un impasto sonoro trasversale, che sfiora diversi e apparentemente incompatibili generi senza realmente abbracciarne nemmeno uno, in cui la voce di Stefania Pedretti è una linea musicale ben più che canora e il risultato sulle immagini è quello di una sorta di dialogo rumoroso che sostituisce senza rimpianti quelli a parole. Non è semplicemente una musica emotiva che interviene a sottolineare ciò che raccontano le immagini, ma è una musica pienamente narrativa, inserita nel tessuto del film, che stordisce e rapisce, che gratta e si impenna, che cambia e si placa, fluidificando lo scorrere delle sequenze. Quasi una musica teorica, che nella sua avanguardia sonora ragiona anche sul cinema e parla di superiorità del visivo sulla sceneggiatura, parla di modernità e di sostanziale annullamento del tempo, parla di un capolavoro assoluto come Frankenstein, fondatore di un genere, pietra miliare nella storia del cinema, e di come non abbia ancora smesso di avere tanto, tantissimo da dire. Non è certo un caso che un gruppo così profondamente underground, e quindi in un certo senso emarginato da un mondo musicale sempre più appiattito alle evanescenti hit pop del mese, dove un brano e un concept album non sono nemmeno più considerati un mero prodotto ma un’ancor più mera parte fra le tante di un servizio, sia andato a lavorare sulla storia dell’emarginato per eccellenza, quella Creatura nata Mostro nata priva di volontà e costretta al male senza nemmeno averne consapevolezza, messa in scena da James Whale che a sua volta fu il primo dichiarato omosessuale nella storia di Hollywood, e per questo emarginato fino al ritiro e al prematuro suicidio nella piscina della sua villa a nemmeno sessant’anni.
Non è la Creatura ad avere reali colpe. È semmai quello del dottor Frankenstein, il suo creatore, l’atto di pura ὕβϱις, la tracotanza di chi vuole sostituirsi a Dio nel dare la vita, di chi vuole competere con l’unico che può dare e togliere la luce, e per questo diventa un dittatore, un oppressore, un essere inumano, reso folle dalla sua stessa ambizione fino a perderne il controllo, e a creare il Mostro che rischierà (e nella sceneggiatura originale avrebbe dovuto farlo, solo in corso d’opera si decise per l’happy ending dopo la caduta dal mulino) di uccidere lui e il suo amore. La vera colpa, in Frankenstein, è quella di competere, di mettersi al pari, che poi nient’altro è che un lucido ribaltamento della verticalità sociale, di quell’ipocrisia del padrone che brinda con le serve e poi le manda a lavorare senza nemmeno permettere loro di finire il bicchiere, di quel femminismo da sempre inseguito e cercato da Mary Shelley, antesignana letteraria e filosofica, simbolo stesso di libertà, donna profondamente indipendente, emancipata, consapevole già in un Ottocento che ancora sognava il suffragio e i pari diritti. Quelli che la Creatura, il Mostro, non avrà mai. Ma avrà in cambio la paura, l’odio, la giustizia sommaria. Avrà in cambio il fuoco, quell’elemento caldo e luminoso che prima lo spaventa, poi lo aizza e infine – fino a La moglie di Frankenstein (1935), nel quale Whale tornerà a lavorare sulla Creatura aggiungendogli la parola e una più fine connotazione psicologica – lo arde vivo. Chiudendo un cerchio di vita e soprattutto di morte, dai corpi trafugati dai cimiteri o staccati direttamente dalle forche al miracolo elettrico e scientifico del raggio che dà la vita, dalle uccisioni dello storpio Fritz e del disattento dottor Waldman a quella accidentale della bambina in un gioco – di lì a breve censurato con il codice Hays e relativamente di recente reinserito – che diventa per la Creatura prigione e maledizione, condanna a fare del male anche per tenerezza. Il Mostro fatto di pezzi di cadaveri, inquadrato dal basso e vestito con maniche troppo corte per rendere la figura truccata e zavorrata di Boris Karloff (che per la fatica del ruolo, fra trucco, elettrodi, cicatrici e abiti pesanti, dovette subire tre operazioni alla schiena ed ebbe danni permanenti per tutta la vita) ancora più colossale, uccide, spaventa, annichilisce, ma al contempo suscita empatia, comprensione, quasi sofferenza nel suo destino segnato e nella sua mancanza di controllo e coscienza. Tanto che nel matrimonio – che diventa corteo funebre, che diventa caccia alle streghe, che diventa straordinarie zenitali che accompagnano la folla inferocita verso il mulino –, già nel pubblico di un 1931 che non aveva mai visto sullo schermo un cimitero, una siringa o una forca e per il quale Frankenstein fu uno shock, non è così difficile immaginare che qualcuno, sotto sotto, già parteggiasse per lui, la Creatura, il Mostro. La vittima. Come Mary Shelley, come James Whale. Era stata scritta la storia del cinema, ancora una volta. E gli OvO hanno dimostrato che, di questo testo, ci sono chissà quante righe ancora oggi inesplorate.
Marco Romagna