FRANCOFONIA (2015), di Aleksandr Sokurov

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E come si fa a fare una critica del film di Sokurov? Se ne può parlare, si può provare a farlo muovendosi da una suggestione all’altra, si può provare a tirare le somme dello sconvolgimento dell’anima e della coscienza (guai a pensare che sia un film freddo e calcolato: è fatto di palpiti, Francofonia), che inevitabilmente si insedia nello spettatore.

Non si resta indifferenti di fronte a Francofonia, che finalmente vede la luce, dopo un’attesa snervante, per noi adepti del Profeta (il Profeta è Sokurov): vuoto incolmabile a Berlino, a Cannes, poi a Locarno, fino all’approdo veneziano, dove ancora riluce, indimenticato, aggirandosi come un fantasma, come una persistenza tenace sulla retina della memoria, il sublime Faust, con i suoi primi piani deformi e deformanti, il 4/3 ondeggiante, con il suo verde dominante, che trascolora dal rancido delle budella umane alla consistenza di porcellana del corpo di una donna, della donna. Francofonia è altro, rispetto a Faust. Forse ha il medesimo scopo, ma il gesto filmico alla base è diverso. La durata relativamente breve, la furibonda e funambolica trama di forme e linguaggi di cui è intessuto lo rendono qualcosa di più prossimo alle elegie, “componimenti” cinematografici dove il lirismo viene sopra ogni cosa. E infatti, Francofonia è un discorso di Sokurov che si mette in scena, fa della sua voce l’ossatura del racconto, ma poi mi vorrei correggere, perché credo anche che a questa stessa voce vada attribuita una funzione più letteraria, se non più mistica: quella di creatore della Storia, con la maiuscola, una voce che interviene sul passato, sulla memoria, la connette al presente e con commovente invadenza si vuole insinuare, indagatrice, nelle pieghe degli eventi. Supportata da un fedele compagno, che mai come questa volta, nella sua filmografia, Sokurov fa salire in cattedra come strumento cinematografico di divine facoltà: il montaggio. Arte russa per eccellenza.

Francofonia è un atto politico. Sta al Faust, atto poetico, come il De Vulgari Eloquentia sta alla Commedia. Un’opera più piccola (che non vuol dire minore) ma più articolata, un’opera-saggio che pone le basi teoriche per i film a venire e ragiona sull’utilità civile dei film già realizzati. E credo che Sokurov abbia deciso di fare un film del genere, che probabilmente non ci aspettavamo in questa forma (in queste forme), una virata così drastica e decisiva rispetto a Faust, perché egli si prepone una missione: egli è un vate, non solo un regista cinematografico, probabilmente volendo affermare che ogni artista dovrebbe esserlo. Francofonia è un film in cui è palese l’impeto di voler parlare alla coscienza di noi cittadini europei (fatalmente, l’occupazione nazista di Parigi, da cui prende le mosse il film, data il 14 giugno: stesso giorno della nascita di Aleksandr Sokurov), quantunque egli dica di sé di essere uno “studente”: “I film sono come delle lezioni, per me, grazie ai miei illustri maestri immaginari”, sono parole sue. E mettendo in scena un museo (un altro, dopo l’amato Ermitage, che qui pure ritorna, ma spogliato del sogno, raccontato nella sua lugubre funzione di ospizio e falegnameria funebre), il Louvre, denominato “la grande strada europea dell’arte”, vuole dire che la coesione di un continente è possibile attraverso la bellezza.

Una bellezza che sta andando evidentemente perduta, o che si sta lasciando sciaguratamente naufragare: in quello che costituisce il tempo presente di Francofonia, il regista parla con il suo amico Dirk, che sta trasportando attraverso un mare in tempesta container colmi di opere d’arte. Che la bufera fa inghiottire dal mare. Il regista si serve di una serie di personaggi per illustrare questo percorso di ricostituzione dell’Europa. Oltre a Napoleone e Marianne, che si aggirano spettrali nei padiglioni del museo, i due memorabili protagonisti sono il direttore del Louvre durante l’occupazione, Jacques Jaujard, e il “nazista buono” Franziskus Wolff-Metternich, il delegato ai patrimoni artistici dei paesi occupati dal Reich.

Le loro vicende sono raccontate nel formato quadrato che l’introduzione del sonoro costringeva a una ratio ancora più anomala e deformante, e questo intervento di Sokurov sull’immagine, invasivo ma necessario, ha una funzione precisa: storicizzare le immagini di oggi e contemporaneamente, facendoli dialogare, attualizzare i filmati (bellissimi, rarissimi, preziosissimi) di repertorio, creando una linea temporale cinematografica in cui le epoche non esistono più. Esiste solo il film.

Elio Di Pace