FRANCE (2021), di Bruno Dumont
Sta già tutto nell’impossibile, e quindi nel falso che sapientemente il cinema rende inganno, della folgorante sequenza iniziale. Un confronto fisicamente mai avvenuto, inattuabile per evidenti motivi se non altro diplomatici, nel quale la protagonista France de Meurs interpretata da Léa Seydoux, giornalista televisiva più importante e popolare del Paese di cui porta il nome, apertamente deride con tanto di inequivocabili gestacci scambiati con la segretaria il vero Presidente in carica Emmanuel Macron. Un qualcosa che si può permettere il personaggio che interpreta, mediaticamente (e quindi politicamente) ancora più potente e rilevante del capo dello Stato, ma che per la presenza e per il ruolo istituzionale di chi viene sbeffeggiato come se fosse un fantoccio è ovvio che non possa essere stato stato girato dal vivo con entrambi contemporaneamente presenti nella stessa stanza. Eppure, nonostante sia evidente come nella realtà del set l’attrice non abbia mai davvero osato mimare un pompino durante l’occasione ufficiale in cui Macron le risponde dal palchetto presidenziale, e con ogni probabilità addirittura non sia mai stata materialmente all’Eliseo durante una conferenza stampa del capo dello Stato francese, sullo schermo l’impossibile si vede chiaramente, tangibile, indubbio, così (apparentemente) reale nel costante mentire ventiquattro volte al secondo delle immagini da poter giurare di avere assistito a quel momento. Una sequenza che Bruno Dumont ha artificiosamente assemblato fra il tavolo di montaggio e gli inserimenti della computer grafica, alternando i provocatori controcampi impossibili al campo filmato durante un normalissimo incontro del Presidente con i giornalisti. Una costruzione nel vero che diventa costruzione di un vero differente, alternativo, perfettamente cesellato e proprio per questo così credibile quando dato in pasto al pubblico. Un vero che è manipolazione e quindi già inevitabilmente finzione, e che in quanto tale si innesta nei linguaggi audiovisivi e nella loro grammatica di sguardo, inquadrature, movimenti di macchina, ciak ripetuti, montaggio, musica e parole, decidendo di volta in volta di quanto avvicinarsi o allontanarsi dalla realtà, di quanto addolcirla o al contrario caricarla e spettacolarizzarla, che cosa mostrare e che cosa omettere, al punto che quando serve inventarsene e costruirne una di sana pianta il cinema sa esattamente come farla apparire reale e come farla apparire fasulla, un po’ come quando al vero Macron dell’incipit si contrapporrà il falso della persona che semplicemente le somiglia scambiata nella clinica in montagna per la cancelliera tedesca Angela Merkel.
Più o meno la stessa tecnica con cui la stampa televisiva che France mette alla berlina costruisce le notizie e i reportage del dolore attraverso la presunta, apparentemente insindacabile e invece apertamente ipocrita, veridicità delle immagini. Un’aderenza fra il telegiornale e il cinema in cui la protagonista France, più che una giornalista, è una vera e propria attrice e regista, con le sue immagini fabbricate e con i suoi stati d’animo simulati, con i suoi controcampi (pratica comune nel giornalismo, quando la telecamera è una sola) di domande ripetute (e quindi messe in scena a fingere la contemporaneità di due macchine da presa) dopo il ‘vero’ campo delle risposte in primo piano dell’intervistato, con i suoi reportage settimanali fasulli da zone di guerra fra jihadisti armati da dirigere come attori e a cui far festosamente ripetere fino all’immagine perfetta l’esibizione della loro guerriglia, o ancora con il comodo yacht con il quale segue il barcone dei migranti fino all’arrivo della Guardia Costiera, per poi salire sull’imbarcazione della disperazione solo al momento di girare il loro salvataggio. Dirige e interpreta France, con la sua arte retorica fatta di un taglio ben preciso nella scrittura degli interventi che passano sul gobbo e di un vero e proprio stile recitativo nell’impostare sguardo e voce per leggerli porgendo le notizie, ma soprattutto con le sue lacrime a comando sempre pronte a sgorgare fra le risate sguaiate dei fuori onda, ricattatorie in quella demagogia calcolata al millimetro che la rende così amata dal pubblico che continua a fidarsi, a seguirla, ad amarla, a chiederle selfie. Ad attribuire veridicità assoluta a quello che la sapiente regia di France gli mostra settimana dopo settimana, e che la regia di Dumont invece consapevolmente svela e smonta con le sue inquadrature che prima di staccare rimangono sempre qualche istante in più tanto sul sublime quanto sul respingente, con i suoi meta-auto-riferimenti che dai canti a cappella di Jeannette torneranno indietro fino a controcampare lo stupro de L’umanità, e con le sue pennellate di irreale che costantemente rivendicano la libertà e la natura del mezzo cinema.
Sarebbe però limitativo pensare a France come a un film che semplicemente insegna a non fidarsi delle immagini. A partire dal titolo, lo strepitoso ritorno di Bruno Dumont nel concorso principale di Cannes è un qualcosa di molto più complesso del suo messaggio, stratificatissimo e profondamente amaro nel suo sguardo netto e feroce sulla contemporaneità. Non solo per le connessioni di potere fra media e politica che mette in scena – «Sei di destra o di sinistra?» «Cosa importa?» –, quanto per una narrazione che, attraverso le bassezze, le illusioni, le decisioni, le lacrime vere che sgorgheranno dopo le tante finte nel collassare della sfera privata e il repentino vacillare della popolarità pubblica dell’omonima protagonista, legge in filigrana e mette in scena l’intera Francia (o meglio l’Europa, e meglio ancora l’intero mondo occidentale) persa in un oggi che, fra la televisione e i social, letteralmente si basa sulle immagini ma al contempo in quelle immagini non sa, non può e non vuole più distinguere il vero dal falso. Un Paese nel quale il borghese far finta di nulla non può nascondere la violenza, il razzismo, il conformismo e il classismo su cui come tutti i Paesi si fonda, che in France affiora chiaro e doloroso nel percorso accidentato di ritiri e di ritorni in televisione, di gelo familiare e di successo lavorativo, di innamoramenti e di lutti, di esaurimenti nervosi e di lacrime indotte che sgorgano in ogni occasione pubblica, di narcisismi perversi che tutto e tutti fagocitano e di ribaltamenti in cui sarà la stessa France a scoprirsi vittima di quell’ipocrisia della stampa che meglio di chiunque altro conosce e sa utilizzare. Un tradimento che è forse l’apice simbolico di un ritratto sardonico della società francese e della sua mentalità, che si innesta nei plongée e nel solco del regime del posticcio di Dumont per farsi impietoso, durissimo, graffiante nella sua satira (in)naturale che rinuncia a ogni schema precostituito, a ogni compromesso (si veda la rappresentazione degli strati più bassi della popolazione in tutto il loro lerciume fisico e morale che per molti versi ricorda Brutti sporchi e cattivi nell’indifferenza dei più abbienti) e a ogni possibile alleviamento del reale per penetrare ogni superficie e strato dell’ipocrisia, e ancor di più della complicità di tutti quelli che quotidianamente si girano dall’altra parte. Un po’ come in quella villa di lusso che sorge con il suo parco e la sua piscina proprio accanto alle zone di una guerra che, come tutte le guerre, sembra essere tale solo per i poveri, mentre per i ricchi è al massimo un set nel quale mettere in scena se stessi e il proprio cinismo egocentrico.
Eppure sarà proprio questa società che tanto ardentemente ama la celebrità quanto ardentemente le volta le spalle nei suoi inciampi, a rendere France progressivamente sempre più fragile, e quindi umana. Sono tre incidenti di diversa natura, a puntellare la sua parabola. Il primo la vede al volante tamponare e far cadere un giovane scooterista, aprendo una prima piccola breccia nella sua immagine pubblica di eroina infallibile e al contempo mettendola forse per la prima volta di fronte a un vero, quello delle banlieue e della loro povertà, a cui non è più possibile applicare i filtri della rappresentazione, geograficamente troppo vicino per poterne narrare un’immagine distorta eppure socialmente lontano anni luce dai suoi salotti aristocratici e dai suoi stipendi a chissà quante cifre, «onorato» di avere a che fare con la più influente stella della televisione eppure impossibile da guarire con un assegno. Il secondo è un incidente tecnico del network televisivo, per il quale durante la messa in onda dell’ennesimo vero/falso servizio di guerra verrà trasmesso per errore anche il contemporaneo dialogo a microfoni aperti fra France e la sua assistente, in cui l’inganno del suo modus operandi giornalistico verrà svelato ai telespettatori che si fanno furiosi. Il terzo incidente sarà invece quello del definitivo annientamento privato, e quindi del vero in contrapposizione al falso della sfera pubblica, ma soprattutto la principale riflessione teorica di Dumont che ristabilisce la superiorità del cinema su quel giornalismo televisivo che da sempre lo copia mostrando, nello sfarzo di una sequenza che inizia come l’apertura di Shining e finisce come un blockbuster che al vertice dell’azione moltiplica fino all’impossibile i punti di vista, l’unica verità (che è in realtà simulata e quindi falsa, ça va sans dire) che la televisione, seppure capace di ricostruire la vita, non sa (ancora) mostrare. Una verità che è quella che sta negli sguardi della morte, quelli terrorizzati del padre e del figlio che stanno per finire nella scarpata, ma anche la soggettiva delle lamiere della loro auto che si contorcono e prendono fuoco fra la gomma bucata che fa perdere il controllo, il camion che arriva dall’altra parte della stradina di campagna e il volo verticale. Un campo e controcampo, l’ennesimo, che questa volta metterà in silenziosa comunicazione lo sguardo attonito di France che ha perso il marito e il figlio con quelli delle loro foto sulle lapidi al cimitero, come a dire che la falsa verità della televisione a un certo punto deve fermarsi e che persino la vita può finire, mentre il cinema, con la sua immaginazione unico luogo in cui potersi ancora incontrare e guardare, rimarrà il solo a potersi ancora spingersi oltre i limiti, a poter essere il ponte fra il mondo di chi c’è ancora e quello di chi non c’è più. O se si preferisce fra il dolore finto e ipocrita della televisione che ne fa pornografica audience e il dolore più intimo e profondo del reale, fino all’emergere di fronte a un memoriale su una ringhiera di quell’empatia che forse per la prima volta trova quel guizzo che France nemmeno in famiglia era mai riuscita a sentire e far scattare. Un fremito per lei inedito, passando per un affetto che diventa rabbia, che diventa rifiuto, che diventa rimpianto, che diventa sconfitta. O forse un perdono che sembrava impossibile, un amore (ri)trovato fra le rovine, uno sguardo in macchina con cui finalmente abbandonarsi alla sincerità, restituendo al solo Bruno Dumont e al cinema l’onere della regia. Fino al prossimo reportage, per lo meno.
Marco Romagna