FOXTROT (2017), di Samuel Maoz
Discutibile vincitore del Leone d’Oro nel 2009 per Lebanon, con in mezzo lo strepitoso cortissimo ospitato in Venezia70 – Future Reloaded, il regista israeliano Samuel Maoz torna al concorso della Mostra del cinema di Venezia con il suo secondo lungometraggio di finzione Foxtrot, riallacciandosi ancora all’esperienza della guerra, anche autobiografica, presente nel suo primo lavoro. L’incipit del film pare molto promettente: Michael e Daphna Feldmann ricevono una visita a casa da parte dei militari che comunicano loro che Jonathan, il loro figlio, è caduto nell’adempimento del suo dovere. Questa prima sezione dedicata alle ore successive all’apprendimento di questa notizia è senza dubbio quella più forte e solida del film: la regia composta e solenne riesce a rendere con molta efficacia la pesantezza dei lunghi silenzi del lutto, la rabbia, la disperazione, e anche l’incapacità del resto del mondo di rapportarsi con chi vive in prima persona questa perdita indescrivibile, e viceversa. Quando però il discorso del film sembra cominciare a bloccarsi in questa rappresentazione, avviene un colpo di scena che lo ribalta completamente: non è Jonathan Feldmann ad essere morto, ma un suo omonimo. Il padre Michael però, dopo questa rivelazione, rimane ancora in stato di shock, e forse è addirittura più arrabbiato di prima: c’è qualcosa che non quadra, come se portasse con sé delle ferite passate di cui non è in grado di parlare.
Se già questo ribaltamento non fa che aprire domande e e dubbi sulla natura del film e il modo in cui produce il suo significato, è ciò che viene dopo che ci offre una prospettiva totalmente nuova: la seconda sezione del film ci mostra la vita di Jonathan nel posto di blocco stradale a cui è stato assegnato con altri ragazzi. Questo capitolo si presenta in maniera completamente diverso dal primo, in quanto è dominato dal senso del surreale, con questi soldati che vivono in mezzo al nulla, in una perenne beckettiana attesa delle pochissime macchine che passano di lì, mentre il loro capannone sprofonda sempre di più nel suolo. Già a questo punto le scelte in merito al cambio di registro cominciano a non convincere, a risultare costruite e pretestuose, a non riuscire a trasmettere un’autentica atmosfera di grottesco. Il contrasto fra le prime due sezioni del film è gestito in maniera furba, con un pesante investimento sulla sola presenza di questo violento sovvertimento di prospettiva, senza che però questo riesca a trovare una reale giustificazione. Fin qui si sono già sovrapposti i temi del lutto, dell’ateismo, della memoria, della guerra, della satira, del surreale, e con l’arrivo della terza parte, quella che cerca di porsi in una posizione di sintesi rispetto alle prime due, ad esso se ne aggiungono a forza anche altri di ordine quasi metafisico.
Dopo che Jonathan e i suoi compagni alla base uccidono per errore dei ragazzi innocenti in viaggio in furgone, la faccenda viene insabbiata e viene scoperto l’errore dello scambio di omonimi, il soldato viene richiamato a casa, ma in un altro fastidioso capovolgimento muore sulla via del ritorno. La terza sezione è dedicata a un incontro fra Micheal e Daphna che riflettono sulla loro condizione a casa loro sei mesi dopo la morte di Jonathan. Fra una sequenza animata pretenziosa e dalle simbologie facili se non di cattivo gusto, lo svelamento dei traumi di Micheal che riaffiorano con la morte del figlio innestando passato e presente e metafore spiegate a menadito come quella che dà il titolo al film (nel foxtrot, il ballerino torna e riparte ciclicamente dallo stesso punto), Maoz ammassa una quantità ingestibile di carne al fuoco, ma non riesce a dare la sensazione di avere qualcosa di importante da dire nel complesso. Forse si tratta un percorso che porta dall’ateismo dichiarato del protagonista per arrivare al problema della concezione ebraica di Dio e dell’imperscrutabilità della sua giustizia, senza che però i passaggi vengano giustificati o approfonditi sufficienza. Certamente ci sono molte idee interessanti e scene registicamente azzeccate, come momenti di familiari carichi di conflitto e dolore, e forse le singole tre sezioni del film avrebbero addirittura il potenziale per essere sviluppate in un’opera a parte, ma l’autore si perde nel formalismo e si lascia trascinare troppo nell’ambizione, dando alla luce un film capace sì di stupire, ma non di entrare nel profondo e sedimentare, e che più passa il tempo dalla visione e più lascia dubbi sull’onestà dei suoi intenti.
Tommaso Martelli