FOLLOWING THE SOUND (2023), di Kiyoshi Sugita
«Il giorno, il tempo, quella conversazione. Questo è il tema del film che faremo», dice l’insegnante presentando ai suoi studenti del laboratorio di cinema il progetto che, dopo le necessarie prove ed esercizi, ha intenzione di far loro realizzare. Eppure, al di là dell’evidente meta-riferimento, non vuole essere esattamente un film sul cinema Following the sound, con cui il nipponico Kiyoshi Sugita, grazie all’attenzione dei selezionatori Giornate degli Autori, sbarca per la prima volta al Lido di Venezia e più in generale nei circuiti maggiori dopo una carriera più che decennale di prime mondiali fra il Festival di Tokyo e il FidMarseille. Vuole semmai esserlo sulla ricerca di un’emozione e di un trasporto senza i quali il cinema, così come tutta l’arte, così come forse la stessa vita, non avrebbe senso di esistere. Vuole semmai esserlo sul ricordo e sulla genuina ossessione – «Nella vostra vita ci dev’essere per forza una parola che vi ha lasciato un segno, una frase-chiave rimasta impressa dopo una conversazione» –, sul bisogno pulsante di riavvicinarsi dopo essersi allontanati (non certo casuale in tal senso il riferimento al covid con i non pochi momenti in mascherina), sull’elaborazione del lutto e sul riempimento di un vuoto emotivo, sul reciproco aiutarsi e sul crescente affetto di un abbraccio. Un lavoro profondamente affascinante nel suo procedere ellittico e musicale, pressoché privo di una vera e propria trama riconoscibile eppure strabordante nel suo minimalismo intriso di una poetica dolce e umanissima, protesa sin dal titolo originale Kanata no uta alla ricerca di una vibrazione, di un luogo, di una persona, di una ricetta, di un incontro capace di spezzare la malinconia delle solitudini. Di un suono rimasto intrappolato in una vecchia musicassetta, di una canzone (la parola “uta”, così ricorrente nei titoli dei film di Sugita, in giapponese significa appunto sia suono sia canzone) da mettersi a cantare insieme sulla porta di un ristorante, di un tunnel da attraversare in motocicletta per poi uscire e tornare finalmente a rivedere la luce. Non importa realmente quando e come la protagonista Haru abbia incontrato per la prima volta Yukiko e Tsuyoshi, né cosa effettivamente abbiano fatto per lei prima di dimenticare quel loro unico avvicinarsi passato. Quello che conta è come, quando era ancora una liceale sconvolta dalla recente malattia e morte della madre, quei due perfetti sconosciuti al tempo giovani adulti la avessero incontrata e si fossero prodigati per aiutarla. È per questo che Haru, pur non avendo mai tenuto reali contatti, continua da tempo a seguirli di nascosto, ed è per questo che quando intuisce un loro momento di difficoltà non potrà che rompere i rigidi schemi della silenziosa e cerimoniosa educazione giapponese (dove non è esattamente all’ordine del giorno che qualcuno chieda a uno sconosciuto un’informazione stradale) pur di incontrarli e parlare con loro. Per restituire quel generoso aiuto ricevuto in passato mentre, un pranzo, una parola e un silenzio dopo l’altro, le loro anime si avvicinano e progressivamente forgiano il loro rapporto nel nascere di un’amicizia, di una corrispondenza di sensi, di un sincero affetto.
Forse è un’incarnazione dello stesso Sugita, che parallelamente alla sua attività da cineasta è in prima persona docente universitario di cinema in Giappone, il professore che spinge gli studenti verso il ricordo e la sua rielaborazione artistica, a interpretare (e quindi a provare in prima persona, identificandosi intimamente nel prossimo) il momento più importante e il sentimento più profondo l’uno dell’altro. Di certo il compito che affida al suo auditorio è il punto principale di Following the sound, piccolo film, ma forse sarebbe meglio dire piccolo haiku minimale, lirico ed elegantissimo, di incontri e di minime increspature destinate a diventare onda emotiva, di poetici silenzi che spesso sanno dire molto più del fragore delle parole, di risposte che rimangono sospese a sottolineare l’importanza del porsi e del saper porre domande. Come a dire che quello che conta, ben al di là della ricerca di un surrogato delle figure genitoriali perse troppo presto dalla venticinquenne protagonista, è solo e semplicemente non avere più paura di avvicinarsi, e di aprire agli altri le porte della propria casa e del proprio cuore. In un film di apparentemente ordinari e invece poeticissimi gesti quotidiani, in cui nella centralità del cibo più tipica del cinema asiatico, ma in questo caso soprattutto nella vita come collante sociale e prima forma di condivisione, imparare a cucinare insieme un’omelette per poi ritrovarsi vicini a fumare una sigaretta sul balcone, in cui rimettere in scena l’antico eppure sempre presente suono di un pianoforte per poi riviverlo ancora una volta sullo schermo, in cui darsi reciproci consigli su una sceneggiatura che sta cercando la sua forma definitiva oppure andare insieme in giro per la città alla ricerca di un luogo che fu caro alla madre estinta, di cui rimane soltanto il rumore dello scorrere di un ruscello su nastro magnetico. Un film in cui imparare a osservare gli altri esseri umani (mirabile la sequenza in cui, di fronte a una modella da disegnare, Haru non riesce a fare a meno di notare e fissarsi sull’inespresso disagio esistenziale di una più anziana compagna di corso che però non sembrerà capire e apprezzare particolarmente la sua attenzione) e a tendere una mano a chi si intuisce ne abbia bisogno, per poi iniziare progressivamente a coinvolgersi sempre di più nei reciproci progetti e nelle reciproche vite di chi accetta l’aiuto, mentre quell’inespressività malinconica dell’inizio lascerà progressivamente spazio al lento dipingersi su entrambi i volti della sincerità di un sorriso. Il resto sono le leggere desaturazioni di un 4/3 caldo e raffinatissimo, in cui Kiyoshi Sugita, nella breve parabola di Haru e delle persone a cui si lega, innesta ancora una volta «il giorno, il tempo, quella conversazione» con cui riuscire finalmente a metabolizzare e superare, o per lo meno ad affrontare sapendo di non essere più soli, i fantasmi irrisolti di un’intera vita, il senso di vuoto di una perdita, il bisogno di ritrovare, nella solidarietà per gli altri e nella formazione di una comunità, ciò che manca da troppo tempo nella sfera individuale. Inseguendo il suono, naturale o musicale, di un’ossessione da rivivere ancora e ancora, fino a trasformarla finalmente in un ricordo felice, in una reciproca appartenenza, in un segno d’affetto. Perché no, nessuno può realmente cavarsela da solo. Non quando basta così poco per ritrovarsi ormai così vicini, stretti sull’uscio nel calore di un abbraccio, come per cercare di trattenere fino all’ultimo chi ormai non si vorrebbe mai più vedere andar via.
Marco Romagna