FIRST LOVE (2019), di Takashi Miike
È impressionante come dopo quasi trent’anni della più prolifica fra le carriere con in mezzo ottantasette lungometraggi l’ormai leggendario iconoclasta Takashi Miike riesca ancora a far deflagrare sullo schermo la vena anarcoide e la lucida follia di First Love, nuova geniale e furiosa creatura piombata alla Quinzaine des Réalisateurs di Cannes 2019 a sovvertire ancora una volta, come già i vari Dead or Alive, Ichi the killer, Visitor Q, Il canone del male e As the Gods will, ma l’elenco potrebbe andare avanti a lungo, tutto ciò che ci si può aspettare dal cinema. Perché è un film riuscito ed eretico come non lo si vedeva da parecchio tempo First love, è un film che sa permettersi il lusso di osare ed esagerare, è un film che orgogliosamente e sfacciatamente sputa sangue in faccia allo spettatore partendo da un noir notturno per spingerlo fino a oltre il suo apice parossistico, fino a pervaderlo di quell’umorismo strabordante e surreale di un’irresistibile commedia degli equivoci che non disdegna il melodramma e che mescola giovani pugili, puttane, protettrici, sicari, yakuza, poliziotti corrotti, droga, allucinazioni, crisi d’astinenza, inseguimenti, lotte con ogni arma e persino un volo animato a superare in auto il cordone di polizia antisommossa per navigare a vista nello sporco, nel tradimento e nel costante doppio gioco di un Giappone criminale marcescente, che non conosce più il vero onore ma solo la sua più profonda ipocrisia. Quell’ipocrisia di chi, comodamente adagiato sul cuscino della supposta intoccabilità morale yakuza, continua a infangarla tradendo donne e compagni, uccidendo alle spalle, macchiandosi di ogni possibile e impossibile infamia. Fino all’inevitabile, furiosa e brutale escalation di violenza con cui fra le mura di un ormai archetipico centro commerciale, quasi come se la prima e misteriosa parte di incastri e inganni narrativi nient’altro fosse che il caricare la molla “tutto in una notte” della seconda con la sua mattanza di armi, plasma, automobili e cinedelirio, non potrà che concludersi la parabola. Ma non corriamo troppo, andiamo per ordine.
Imprevedibile, sempre spiazzante e splendidamente esacerbato nel suo vulcanico implodere di generi e situazioni, il notturno First love parte dalla penna e dalla china del fumettista manga Masaru Nakamura quasi come un dramma sportivo, con il giovane Leo, promessa del pugilato, che si allena per il prossimo combattimento. Ma appena un suo gancio destro va a segno Takashi Miike, con un geniale raccordo di montaggio che a sua volta parte dalla grammatica cinematografica del film di genere per scartare e trasformarla in altro, anziché sul “classico” controcampo stacca su un’altra testa che vola, recisa di netto da spada yakuza in un qualche vicolo putrido di Shinjuko. È la testa di un filippino, bassa manovalanza in quell’organizzazione mafiosa nipponica che, ancestrale e ancestralmente razzista, ancora è titubante nel fare affari anche con quella cinese. Una testa che, prima di rendersi conto di essere morta, ancora sorride nel suo ultimo ghigno, proprio come ghigna chi lo ha ucciso e finalmente può riporre – e nascondere sotto una calza a forma di papera – la katana. Un tradimento, l’ennesimo, che apre a un fitto intreccio di tossicodipendenze e doppi giochi, di menzogne e di inganni, di pugni in faccia e di spari, di vendette e di esplosioni, di polveri bianche e di equivoci, di bande criminali e di un’altrettanto criminale polizia, nel quale nemmeno l’uomo con un solo braccio, eroica figura tradizionale della Cina da ben prima di reincarnarsi nel MIKE di Twin Peaks, si salverà dalla perdita di valori di un’intera società. Verso il mortale tutti contro tutti della resa dei conti finale, ma paradossalmente anche verso la vita, la tenerezza e l’amore (im)possibile fra il boxeur «civile» Leo, che finisce per puro caso e attrazione in mezzo alla guerra yakuza dopo essere andato al tappeto senza motivo apparente e tornato a casa con una diagnosi – sbagliata – di tumore al cervello che nella convinzione di morire gli toglierà ogni paura, e la prostituta tossicodipendente Monica che nelle sue crisi d’astinenza ancora vede il padre violento, e riconosce quel vecchio compagno di scuola che la difese al tempo in chiunque la aiuti.
È impossibile enumerare tutte le trovate e gli assoluti colpi di genio che l’immaginario senza fine di Takashi Miike, autore fra i più sottovalutati della contemporaneità a causa degli inevitabili alti e bassi in una produzione così sterminata, nel suo spingere a tavoletta riesce a disseminare nel procedere di First love. Ci sono improbabili ciarlatani di strada che a differenza dei medici avevano ragione, ci sono frenate improvvise a lanciare i passeggeri contro il cruscotto come nuova variante del colpo in testa per stordire il nemico, ci sono improbabili nonne che spuntano dal nulla e pacioccosi cagnolini meccanici con cui distruggere, ci sono case a fuoco e (quasi) impossibili sopravvivenze lanciandosi dalle finestre, ci sono inseguimenti amichevoli scambiati per aggressioni e sparatorie che non fanno male, ci sono vendicatori e vendicatrici nei continui ribaltamenti delle forze in gioco e i modi più fantasiosi e assurdi di uccidere, ci sono crampi che aprono a movimenti inconsulti e telefonate di scuse che strizzano intelligentemente l’occhio demenziale senza mai scivolare nel rozzo. Ci sono arti e teste tagliate, ci sono infiniti stalli alla messicana che si frammentano e si moltiplicano in attesa di esplodere, ci sono calci nelle palle alle proprie allucinazioni che colpiscono esattamente alle palle i propri reali aguzzini e ci sono nebbie di droga nelle quali cercare di eclissarsi e disintossicarsi, come a suggerire la provocazione che le sostanze stupefacenti, a differenza delle forze dell’ordine, possono salvare la vita. Anche dalle forze dell’ordine. L’ennesima provocazione profondamente politica, inguaribilmente ribelle, ostinatamente anarchica. Come del resto è da sempre a suo modo politico il cinema di Takashi Miike. Un cinema che parte dal genere, dall’industria, dal mainstream, dai manga, dal facile consumo, e con il suo elegante e parossistico delirio programmaticamente li smonta, li rimonta e li ribalta dall’interno per immergerli nella più pura sovversione, nella ribellione, nella brillante follia iconoclasta di un autore magari altalenante, ma unico, geniale, preziosissimo. Che continua da trent’anni, con una produttività disumana e incomparabile, a fare esattamente quello che gli pare. E non è forse questo, in un mondo cinematografico sempre più asfittico e dozzinale, un impetuoso soffio di Rivoluzione?
Marco Romagna