17 Maggio 2016 -

FIORE (2016)
di Claudio Giovannesi

A quattro anni dal Premio Speciale della Giuria al Festival di Roma con Alì ha gli occhi azzurri, Claudio Giovannesi ci riprova, presentando Fiore, suo terzo lungometraggio di finzione, alla Quinzaine des Réalisateurs di Cannes 2016, con il 25 maggio già fissato per l’uscita nelle sale. E quando si parla di Giovannesi urge una premessa fondamentale: il suo cinema, che sia di finzione o documentario, nasce sempre da ottime intenzioni, è sincero, è accorato, è figlio del dolore e della rabbia, vuole impegnarsi per tentare di raddrizzare qualche stortura del mondo, o quantomeno per metterla in luce e aprire occasioni di riflessione al proprio spettatore. Quello di Giovannesi è un cinema che, se non si può definire esattamente politico, quantomeno si dimostra sempre umano e sociale, un cinema etico e mai giudicante che dà voce e libertà ai più repressi, ai più annichiliti, ai più problematici. A(gl)i (in)colpevoli, che magari sbagliano, ma che mai smettono di avere un cuore, una dignità, un’anima da amare, da rispettare e da seguire fino in fondo anche nella sua oscurità. Prima agli immigrati di prima o seconda generazione in un mondo che rifiuta di accettarli, e ora ai giovanissimi carcerati, ragazzi soli che hanno rubato per fame e ai quali viene negato l’amore.
Il cinema di Claudio Giovannesi è un lavoro di mappatura del sottoproletariato, è un discorso di uguaglianza nei diritti, è una voce contro e spesso scomoda. Ma è anche, ed è il motivo per cui forse non riusciamo ad amarlo quanto vorremmo pur abbracciandone appieno i principi e la portata emotiva, un cinema troppo altalenante, ora forte di sequenze potenti e significative, ora profondamente ingenuo, talmente ostinato nel portare avanti le proprie, pur giuste, istanze, da sconfinare troppo spesso nella fastidiosa reiterazione degli stereotipi più banali. Si tratta di un difetto di scrittura ben più che di messa in scena – le regie sono sempre molto curate, fra lunghi e motivati pianisequenza nervosi a mano, difficili incroci di attori e comparse e le indubbie capacità di Daniele Ciprì alla fotografia –, si tratta di un difetto probabilmente inconsapevole e di sicuro non doloso, si tratta di un difetto che sarebbe correggibile delegando almeno parte della sceneggiatura a mani più leggere. Ma si tratta pur sempre di un difetto che, fra cadute di tono narrative e qualche dialogo non propriamente adeguato, finiva in Alì ha gli occhi azzurri per depauperare persino parte dell’etica apparentemente granitica che stava alla base, e finisce nel decisamente migliore e anzi buono Fiore per impedirne il definitivo salto di qualità.
Se nel precedente lavoro il regista aveva messo in scena – non senza, ahinoi, una retorica preterintenzionalmente ai limiti del populismo – la drammatica realtà degli extracomunitari a Roma e gli abominevoli episodi di intolleranza, sfiducia e razzismo nei loro confronti, l’ambito in cui si muove Fiore è invece quello del dramma carcerario, o più precisamente del riformatorio, in buona parte al femminile, fra i legalissimi soprusi delle guardie e la repressa voglia di vivere dei giovani detenuti. Daphne (la sorprendente ed encomiabile Daphne Scoccia, assoluto motore emotivo del film), viene presentata come una delinquentella che, coltello alla mano, ruba telefoni cellulari nelle stazioni della metropolitana da Roma. Apparentemente un maschiaccio, ma in realtà una ragazza sola, la madre inesistente, il padre (Valerio Mastandrea, che smessi i panni del torinese Massimo Gramellini in Fai bei sogni di Bellocchio può tornare a vestire la sua smaccata romanità) appena uscito dal carcere e che sta cercando di rifarsi una vita nonostante i domiciliari notturni. Daphne è una ribelle, è uno spirito libero, è un’indipendente, ben poco adatta alla vita in riformatorio (ma chi lo è?), eppure proprio nel momento in isolamento a causa di una rissa fra le giovani detenute conoscerà, attraverso le finestre della confinante sezione maschile, l’aitante Josh (Josciua Algeri).

Fiore è il romanzo di formazione di Daphne, delle sue compagne di sventura, del ragazzo disposto ad aspettarla fuori dal riformatorio, ma anche di un padre immaturo da re-incontrare e con il quale crescere insieme. Fiore è il sogno di una fuga a Ibiza, o quantomeno a Rimini, è una tenera storia d’amore proibito, ostacolato, tortuoso, disperatissimo, è un preciso atto d’accusa verso quelle guardie carcerarie che – anche negli istituti minorili – nel loro rispetto pedissequo dei regolamenti abbandonano ogni tipo di umanità, ed è una riflessione sofferta e non banale sulla difficoltà, o forse impossibilità, di trovare un posto nel mondo e nella società. Fiore è un film sull’evasione dalle proibizioni, sulla speranza di tornare alla vita prima possibile, sulla necessità di essere compresi, prima di tutto, e amati. Ma Fiore è anche in un certo senso un film sull’inevitabilità, come testimoniato da una delinquenza umanissima, senza cattiveria ma per necessità e complessità delle situazioni, che passa di generazione in generazione come un morbo con cui convivere. Fiore è uno strozzato grido di libertà, pronto a esplodere negli inseguimenti a perdifiato, nella tenera sequenza in cui Daphne si mostra nuda alla finestra a Josh, nel permesso speciale concessole per due giorni in famiglia per la Comunione del fratellastro che confluirà nel notevole finale di inseguimenti e amore che vince su tutto. Anche – magari solo per un giorno di felicità, il caro prezzo delle emozioni – sulla legge. Del resto, anche nella Maledetta Primavera che viene intonata nel carcere minorile, «Che fretta c’era, lo sappiamo io e te». La fretta di vivere, di lanciarsi, di amare, pur sapendo che ben presto la legge vincerà di nuovo sulla libertà. Ma sul cuore no, quello nemmeno la legge può toccarlo.
Fra i tanti buoni e a tratti ottimi momenti forti delle più che condivisibili idee che il film vuole esplicare, però, emergono anche i grandi e piccoli limiti cinematografici del film di Giovannesi. Problemi che iniziano, anche in questo caso, quando smettiamo di pensare al cosa per concentrarci sul come. Limiti che si annidano nelle esagerazioni, nelle forzature, nei momenti più reiteratamente retorici. Come un Fiore che perde alcuni petali nella costruzione troppo schematica del rapporto di Daphne (inevitabili problemi-odio-abitudine-affetto) con le altre ragazze del riformatorio, ne perde altri negli istinti calcistici tecnicamente nulli della protagonista, ne perde altri nella tutto sommato gratuita (proprio perché non elaborata e stratificata) parentesi saffica all’interno del riformatorio, e ne perde altri ancora nella poco credibile telefonata mattutina alla ex di Josh per ritrovarlo al lavoro (forzato) in una pizzeria meneghina. Fino a, se non proprio appassire, quantomeno piegare in parte il suo stelo in una struttura troppo episodica che via via perde efficacia nel racconto della quotidianità del riformatorio. Ma soprattutto Fiore rischia di sfiorire, pur avendo ragione, nel personaggio di una guardia sempre presente come un avvoltoio ogni volta che Daphne, in sostanza, si alza dal letto: quella testa che spunta sempre dal finestrino della cella a stanare qualsivoglia barlume di vita, quella profusione dei «Ti faccio rapporto» come leit-motiv di buona parte del film, quella durezza con cui la guardia stronca il rapporto epistolare della giovane con Josh manco stessero tramando chissà cosa, oppure la punizione a capodanno (poi revocata) per un semplice rossetto, fino alla sequenza in cui, durante un colloquio con il padre, confisca dalle mani di Daphne persino la bomboniera della Comunione del fratellastro perché non consegnata attraverso la procedura prestabilita. Nella sua volontà di spiegare quanta crudeltà ci sia all’interno di un carcere, e quanto possano essere distanti la giustizia e la legge, Giovannesi procede per accumulo, reitera concetti già ampiamente chiari, finisce per rimasticare stereotipi e per cadere nella retorica più sempliciotta delle guardie malvagie e dei detenuti umanissimi, senza le necessarie sfumature, senza i necessari distinguo, e quindi alla lunga senza la necessaria credibilità. Il che, in un film sulla complessità, è decisamente un problema. Ma poi rientra, sorprendentemente emozionante, la storia d’amore, con cui il Fiore si rinvigorisce, torna a vivere, a colorare, a profumare, a portare sullo schermo, al di là delle ingenuità “politiche” e più prettamente narrative, una passione tenerissima e palpitante, che sguscia sotto pelle, destinata a crescere. E i limiti di scrittura passano magicamente in secondo o forse terzo piano, come una scritta sulla sabbia progressivamente erosa e prima o poi cancellata dall’onda – emotiva – del cinema.
Che si riferisca al Fiore della giovinezza, al Fiore del male, ai fiori sul vestito di Daphne in fuga oppure alla semplice quanto ancestrale necessità di sbocciare, il nuovo film di Claudio Giovannesi dimostra ancora una volta tutta la sincerità del regista romano, dimostra ancora una volta tutta la sua volontà di cambiare la società, dimostra ancora una volta tutto il suo ‘impegno’ verso le classi sociali più disagiate. E poco importa, alla fin fine, che dimostri anche come le più nobili intenzioni e una capacità indubbia nel girare possano non essere sufficienti, senza una sceneggiatura che sappia tenere le fila senza capitomboli, per portare a casa un bel film. Perché no, probabilmente Fiore non è (ancora) un bel film, ma è un film vero e sincero, è un lavoro interessante ed emozionante, forte di buoni protagonisti e di ottimi momenti, forte di un indubbio cuore e di un finale inaspettato e di rara potenza. Un film da difendere e anzi sostenere, pur consci dei troppi passaggi forzati, delle troppe incursioni nel “facile”, dei troppi tremolii di un polso generale che rimane in realtà nelle elucubrazioni più che sullo schermo. E pur consci che da parte di un regista con velleità autoriali e capacità di riempire lo schermo di vita sarebbe lecito aspettarsi ancora di più. Claudio Giovannesi, con qualche colpo di lima e forse ancora un briciolo di ambizione in più, potrebbe crescere ancora, imparando dai propri errori a non cedere a pleonasmi retorici, a non accontentarsi di qualche raffazzonatura purché passi il messaggio, e così a zittire, con la sua definitiva maturazione, ogni residua perplessità. Dovrebbe spingere ancora di più sul pedale della nouvelle vague, sulla sincerità pura, sulla gioia e sullo strazio, sui cambi di genere, su un film “sgrassato”, meno scritto e ancora più spontaneo. Che poi, di fatto, nient’altro vuole dire che continuare su questa strada, e anzi radicalizzarla. Perché sarebbe troppo severo, e anzi smaccatamente falso, negare di esserci già con questo film fortemente emozionati: Fiore arriva e non va più via, cresce, implode, come l’amore oltre i divieti, le barriere, le sbarre. L’amore come necessità, gioia, libertà, voglia di vivere. E proprio da questa forza Giovannesi dovrà ripartire, per liberarsi definitivamente dei suoi attuali limiti e diventare per davvero il grande autore che in potenza si annida nel suo sguardo.

Marco Romagna

“Fiore” (2016)
110 min | Drama | Italy
Regista Claudio Giovannesi
Sceneggiatori Claudio Giovannesi, Filippo Gravino, Antonella Lattanzi
Attori principali Aniello Arena, Daphne Scoccia, Josciua Algeri, Laura Vasiliu
IMDb Rating N/A

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