L’oscurità è già calata su Napoli, quando il roboare di due colpi d’arma da fuoco irrompe nel silenzio della notte. Qualcuno ha evidentemente tirato il grilletto, e qualcun altro è altrettanto evidentemente rimasto a terra nell’ennesimo regolamento di conti camorristico. Ma Giovanni Dota, fra i più promettenti giovani registi in uscita dal Centro Sperimentale di Cinematografia per la seconda volta ospite a Venezia a un anno di distanza dal primo cut di quelLa chimera militante e ancora in corso che insegue insieme ai suoi compagni di viaggio Elio Di Pace e Matteo Pedicini, questo omicidio intelligentemente non lo mostra. Il suo sguardo preferisce restare sui saliscendi e sui tetti della terra che abbracciò Partenope, con una panoramica che accarezza dolcemente il profilo scosceso della città in cui è nato e cresciuto, e della quale Fino alla fine, piccolo gioiellino presentato fra i cortometraggi di SIC@SIC, riesce a condensare in quindici minuti tutto lo spirito più verace.
Trasuda napoletanità da ogni fotogramma, Fino alla fine, trasuda spirito d’appartenenza, orgoglio, quei legami a doppio filo con la propria terra che chi è nato sotto il Vesuvio e cresciuto fra nel mito di Diego Armando Maradona non può fare a meno di sentire e vivere. Trasuda l’accento e il modo di parlare, trasuda la mimica esasperata e l’orgoglio degli uomini di mare, trasuda i movimenti più ampi e teatrali della testa e delle mani così come quelli talmente minimali da parere impercettibili, ma che ogni napoletano percepisce eccome. E soprattutto, di Napoli, l’irresistibilmente spassoso Fino alla fine trasuda la profonda e acuta autoironia, la simpatia più coinvolgente e dialettale, quella passata da interi secoli di tradizione teatrale e cinematografica da Pulcinella a Totò passando per i De Filippo, con particolare sguardo al burlesco di Peppino, e poi dalla caricatura delle macchiette di fine Ottocento alla Smorfia di profondità dolente che si celava sotto le risate con Massimo Troisi. Perché di Napoli Fino alla fine mette in scena e analizza anche le contraddizioni, la camorra e le sue regole, il modo unico di pensare e le leggi d’onore, ma per farlo si affida a una divertente e divertita caricatura che mai vira davvero in farsa, ma che si addentra piuttosto, con i suoi dialoghi acuti e brillanti, nei territori di un’acuta quanto spiritosa satira sociale che nemmeno troppo fra le righe nasconde al suo interno un roboante canto d’amore e passione. Quello di Giovanni Dota per la sua terra natia e per il suo folklore, compreso ovviamente il colore azzurro al quale è doveroso per chiunque viva Napoli consacrare ogni domenica all’inseguimento di un pallone per sfiorare il sogno di tornare campioni.
Questa volta, per la prima volta, l’apparentemente infallibile e glaciale killer Umberto “Si e No“, così chiamato per i cenni con il capo come uniche risposte al boss nel suo ostinato mutismo, ha commesso il suo primo e tragico errore. Non solo il suo proiettile ha mancato la vittima designata, ma nel più clamoroso degli scambi di persona a cadere sotto lo sparo è stato proprio il nipote del boss dei boss Tonino O’ infame. Un errore che, nei codici d’onore e di rispetto, non può che voler dire la condanna a morte, ma che ancor prima, già al momento dello sparo contro la vittima più sbagliata possibile, non può che portare “Si e No” ad aprire per la prima volta la bocca per imprecare. E, come riferito al boss Don Caputo dallo sconcertato compagno di sortite criminali, la sua imprecazione è stata «del nord», con un «boia faus» assolutamente sconcertante se in bocca a un killer della camorra. “Si e No”, messo con le spalle al muro dalle bocche delle armi da fuoco, “confessa” di essere piemontese di Villareggia, in provincia di Torino, e forse questo, nei paradossi caricaturali abilmente scritti e messi in scena da Dota, è un tradimento per il quale ancor più che per l’errore il killer merita la morte.
Ma sta proprio qui uno dei più luminosi fra i tanti colpi di genio comici e spiazzanti di Giovanni Dota, nella telefonata del boss che inaspettatamente giunge a interrompere l’esecuzione, nei sensi di colpa che lo attanagliano sotto le forme ectoplasmiche della lunga catena di morti, e ancor più nella volontà di Tonino O’ infame di spezzarla. Dopo aver fatto sciogliere bambini nell’acido e aver rapito e ucciso chiunque si fosse mai messo sulla sua strada, ora al superboss bastano delle scuse formali, basta un appuntamento, basta il sincero pentimento di chi ha commesso un fatale errore senza alcun tipo di malafede. Vuole che Umberto “Si e No” lo guardi negli occhi e gli chieda scusa, ma non che paghi con la vita. Peccato solo che a Napoli anche le scuse abbiano una loro ritualità, una propria musica, una propria mimica del viso, una propria gestualità del corpo, e che l’affiliato parli «come il Mulino Bianco». Bisogna addestrarlo, renderlo “vero” napoletano, come unico modo per salvarlo e per salvarsi, ed ecco che il plotone d’esecuzione diventa una sorta di improbabile laboratorio teatrale in cui portare il settentrione verso Mezzogiorno, in attesa dell’inevitabile resa dei conti, introdotta da un indimenticabile ralenti neomelodico, nella casa/rifugio di Don Tonino.
Messo in scena fra campi e controcampi puliti, brillanti controluce fotografati dal talentuoso e sempre ottimo Andrea Manenti con più che un occhio al western ed eleganti carrellate laterali a movimentare il tutto, Fino alla fine colpisce per sguardo e direzione degli attori, per scrittura e per profondo acume nella strabordante vis umoristica, per appartenenza e per lucidità nel prendere bonariamente in giro senza mai davvero ridicolizzare la propria terra proprio a partire dai luoghi comuni che la attanagliano. Quello di Fino alla fine è un surreale con cui Giovanni Dota ribalta gli stereotipi prendendosi apertamente gioco dello spauracchio, ovvero mettendo in scena tutta la faccia più nascosta e ridicola della criminalità fra equivoci e frecciate, e al contempo riflettendo sull’appartenenza e sull’integrazione, sulla più tipica e radicata mentalità napoletana, su vizi, virtù e passioni di chi la vive.
Passioni che possono aprire all’umanità più inaspettata di chi non è una macchina, possono portare al rifiuto della violenza in virtù della riflessione, della costrizione e del perdono, possono portare la voce interiore del cuore a emergere dal silenzio, possono contraddire apertamente (ma senza esagerare, per non tradire e fraintendere lo spirito di una città) ogni tipo di stereotipo, e possono persino portare un superboss ad «aprire alle minoranze» con tanto di camorristi rispettivamente di colore e omosessuale al servizio di O’ infame, perché «quando si tratta di palle non c’è geografia». Ma nell’inchino del taciturno “Si e No” per baciare la mano di Tonino c’è il secondo e tragico errore: scoprire un tatuaggio che sarebbe dovuto rimanere nascosto. Perché c’è solo una cosa che, a Napoli, non è tollerabile. Se non è certo una colpa essere piemontese, lo è tifare la squadra (di Torino) sbagliata, quella a strisce e con tanti scudetti di cui tanti, troppi, rubacchiati al Napoli. Solo sul geniale finale il titolo di Fino alla fine trova il suo reale significato e il sangue più caldo della sua profonda e divertita napoletanità. Lo trova nel riferimento al celebre e odiatissimo coro della Juventus, lo trova nella vendetta cinematografica dopo uno scudetto strappato, lo trova nella sana rivalità sportiva, che poi è l’unica reale rivalità culturale fra chi vive la propria viscerale passione con la voce e con il cuore e chi è interessato solo ed esclusivamente a vincere, fra chi vive ogni giorno di ogni settimana inseguendo un sogno e chi ormai dà per scontato che anche l’anno successivo avrà il triangolino tricolore sulla maglia, fra chi vive la propria città in profondità e chi preferisce il potere di una multinazionale. Giovanni Dota non ha il minimo dubbio su chi abbia ragione. E, da “fratelli” genoani, nemmeno noi, che nel frattempo non possiamo fare altro che sperare che un simile talento abbia presto tutte le occasioni possibili per emergere, arrivando dove merita. Perché è chiaro, palese, cristallino. Basta solo coglierlo e dargli un po’ di fiducia. Ridendo a crepapelle, magari, che non guasta mai.
Marco Romagna