FINALMENTE L’ALBA (2023), di Saverio Costanzo

Mancava da nove anni un film per la sala di Saverio Costanzo, che nel tempo intercorso si è dato alla serialità televisiva (In Treatment versione italiana prima, L’amica geniale poi). Torna dunque alla regia di lungometraggio, e in Concorso a Venezia dopo la doppia Coppa Volpi per Hungry Hearts, con Finalmente l’Alba, tratto da un suo copione originale. Dopo le reminiscenze argentiane delle opere precedenti, questa volta si va più indietro e si torna all’epoca d’oro del nostro cinema, il secondo dopoguerra del neorealismo, anche con la sua variante “rosa”, fino ad arrivare ai grandi autori, con il nume tutelare Fellini su tutti. La storia è ambientata nel 1953, e il riferimento temporale è dato dal “delitto Montesi”, un caso di cronaca nera che scosse profondamente l’Italia dell’epoca: il corpo di Wilma Montesi, giovane e bella aspirante attrice e starlette, di estrazione popolare, venne rinvenuto da un manovale su una spiaggia del litorale romano, non lontano dalla tenuta dal marchese Ugo Montagna. Questi era solito organizzare sfarzosi party con la presenza di esponenti politici, del mondo della cultura e, più in generale, del cosiddetto “generone” romano. La villa di Montagna è la location dell’ultimo atto del film di Costanzo: lì viene condotta Mimosa, la protagonista interpretata dall’esordiente Rebecca Antonaci, dopo una serata in compagnia delle star hollywoodiane Josephine Esperanto (Lily James) e Sean Lockwood (Joe Keery).
Ma andiamo con ordine: Mimosa, insieme alla madre e alla sorella, è al cinema a vedere Sacrificio, l’ultimo film con Alida Valli (qui interpretata da Alba Rohrwacher), una sorta di ricostruzione finzionale dello stile neorealista, una storia tragica ambientata durante la guerra. Alba/Alida viene trucidata da un feroce graduato nazista nell’atto di proteggere una bambina, poi salvata in un caso da manuale di last minute (escamotage narrativo di gran voga nel cinema hollywoodiano classico, e su quest’ultimo torneremo successivamente) proprio da Lockwood. Apriamo una piccola parentesi, per contestualizzare ancora meglio le scelte di Costanzo: Alida Valli, all’epoca, era la compagna di Piero Piccioni, celebre musicista jazz poi autore di colonne sonore e inventore principe della cosiddetta library music, il primo accusato (ingiustamente) del delitto Montesi, figlio dell’allora vicepremier e Ministro degli Esteri Attilio. Dopo il “the end” e l’accensione delle luci in sala, alla madre è affidato il compito, tramite i suoi sprezzanti commenti, di dare conto dell’umore del pubblico italiano dell’epoca, stanco di tragedie e pronto ad abbracciare i nuovi generi e la commedia all’italiana di qualche anno successiva. All’uscita la sorella di Mimosa viene notata da un balordo fanfarone (che ricalca il personaggio di Walter Chiari in Bellissima di Visconti, ma anche i ruoli da villain del primo Vittorio Gassman cinematografico in film come Riso amaro di De Santis e Anna di Lattuada) che le promette il ruolo di comparsa in un kolossal peplum hollywoodiano. La madre e l’ingenua Mimosa la accompagneranno, ma sarà proprio quest’ultima a vivere una grande avventura (o forse un grande incubo lungo una notte), destinata a concludersi soltanto il mattino successivo.

Echi da Lo sceicco bianco, con la ragazza ingenua sedotta dal sogno, lì il fotoromanzo e qui il grande cinema statunitense, e soprattutto da La dolce vita, con la lunga sequenza della festa: non si esce da Federico Fellini, da lui si parte e a lui si torna. Qui però non siamo in uno sterile aggiornamento sorrentiniano (chi scrive non è un particolare amante de La grande bellezza) ma a un livello più profondo, in un’opera che continua per tutta la sua considerevole durata a mischiare e compenetrare i piani, quello del periodo storico e della contestualizzazione d’epoca con la realtà filmica, la sua proiezione onirica e l’ulteriore livello metacinematografico. Fino a quello che è probabilmente il momento più alto di cinema dell’intera Mostra di Venezia 2023, con la tensione e l’emozione di una poesia muta e commossa con cui esplodere di dolore e dignità. Il periodo della Hollywood sul Tevere, e dei grandi kolossal girati a Cinecittà per la qualità artigianale, la scarsa sindacalizzazione e gli stipendi più bassi delle maestranze, è “rinverdita” da Costanzo spendendo una parte del (cospicuo, più di 20 milioni) budget per costruire un’imponente scenografia da antico Egitto. Il regista gioca anche con le aspettative dello spettatore in merito alla povertà di mezzi dell’attuale cinema italiano: inizialmente vediamo due bambini che sbirciano da un buco della palizzata, e quando vengono cacciati si pensa inevitabilmente “escamotage per evitare di mostrare l’imponente scenografia”. Invece subito dopo assistiamo a una (troppo) lunga sequenza di film nel film, con le sue decine di comparse, con una scalinata imponente che porta al palazzo della faraona (il film inventato parla dell’unica faraona di sesso femminile, prima cancellata dalla Storia e poi resa cattiva dalla sceneggiatura mentre sotto il suo regno si era avuto un periodo di pace e prosperità) e con i cartelloni sapientemente posizionati per restituire l’impressione della vastità del deserto.
Prendiamo spunto da queste ultime annotazioni per affrontare una delle due tematiche del film, (se) non la principale: il rapporto tra la nostra cinematografia e quella statunitense, e forse più in generale quello fra le culture tra egemonia e sostanziale neocolonialismo, ripetutamente “tradotte” dal bilinguismo del gallerista e autista Willem Dafoe. La vendita alla masse del Sogno (che il fascismo tentò inutilmente di replicare con il filone dei cosiddetti “telefoni bianchi”, arredo principe nelle case dei melodrammoni altoborghesi messi in scena, ma che nessuno realmente possedeva) e parimenti il rifiuto della realtà nuda e cruda, il primato dell’intrattenimento leggero su quello di contenuto, l’identificazione totale tra gli attori e i loro alter ego su pellicola, il “soft power” propagandistico statunitense nella sua versione più suadente ed efficace. Quando il velo cade e la star Esperanto viene vista senza orpelli, al naturale, persona e non più personaggio, donna e non più diva, il sipario DEVE richiudersi perché la magia possa continuare: la migliore idea registica del film è proprio la splendida scena di una porta a specchio che bruscamente si chiude e rimanda alla spettatrice la sua stessa immagine, rompendo per un momento il meccanismo di proiezione identificativa e lasciandola/lasciandoci sola davanti a se stessa. Una se stessa che ha saputo conquistare il centro della scena abbandonando il ruolo ancillare che la vita (e il set hollywoodiano) le avevano affidato. Tutto inizia quando la star hollywoodiana decide di avere quel viso triste e dimesso davanti a sé per avere un riferimento interpretativo, e la chiusura del cerchio (TUTTI i cerchi vengono chiusi in una sceneggiatura calibrata al millesimo, come un bilancino di precisione) è la sequenza sopradescritta; destinata ad un matrimonio di convenienza con un poliziotto meridionale (come Wilma Montesi), portata nell’antro dei pericoli (di nuovo come Wilma Montesi qualche sera prima), Mimosa riesce a vedere l’alba, a resistere alle insidie e a non soccombere alla bestia feroce, il trittico maschi/soldi/potere. E arriviamo quindi al tema principe, che l’anacronistico pezzo degli Strokes sul finale fa emergere con ancora più forza: finalmente nessuno più si gira dall’altra parte, finalmente il paternalismo galante è additato e sbeffeggiato, finalmente alcuni comportamenti accettati come normali da gente di ogni sesso e colore politico e culturale ed espressioni come “divano del produttore” accompagnate da risatine cominciano a diventare parte del passato. Finalmente l’Alba, appunto, può cominciare a spuntare. Costanzo non mitizza il passato e non ne nega la grandezza, si tiene intellettualmente in equilibrio tra lo splendore spettacolare e la miseria morale, tra l’eccellenza culturale e le ambiguità che tali non erano, perché i cambiamenti hanno bisogno di tempo, forse di TANTO tempo, per incistarsi nelle società e perché sia più difficile tornare indietro. È anche un auspicio più generale, per l’Italia e per la nostra industria culturale: aggredita e brutalizzata dalla potenza di fuoco di Hollywood, ma capace allora di reagire, come Mimosa. Il film di Saverio Costanzo, in conclusione, pur non scevro da difetti (la lunghezza eccessiva di alcune sequenze, qualche squilibrio recitativo, una metafora finale un po’ troppo urlata) non è il “solito” rifugio felliniansorrentiniano che sembra garantire un po’ di attenzione sui mercati esteri, ma un modo di poggiarsi sulle spalle dei giganti per tentare di spiccare, di nuovo, il volo. Ancora vivi, e nettamente più consapevoli.

Donato D’Elia