Era il 1961 a Golzow, un piccolo paese della Germania dell’Est al confine con la Polonia. Un regista fresco di diploma alla Scuola superiore di cinema di Postdam-Babelsberg, Winfried Junge, iniziò a realizzare con la moglie Barbara quello che è – almeno per colui che scrive – il più importante esempio di documentario mai girato, I bambini di Golzow. Junge illustra il cammino nella vita di questi bimbi senza trionfalismi, non censura tensioni né drammi. Il film stesso, come i suoi protagonisti, risente delle trasformazioni sociali e spesso epocali, ma non viene mai interrotto, neppure dopo la chiusura della DEFA da cui fu commissionato inizialmente il lavoro. Quel documentario – anche se sarebbe ormai giunta l’ora di non utilizzare più tale settorializzazione (e in alcuni casi quasi ghettizzazione) verso ciò che filma il reale nelle sue possibilmente infinite direzioni – durerà quasi mezzo secolo, oltre 2570 minuti, quasi settanta chilometri di pellicola, che custodiscono i destini di una generazione dall’infanzia fino all’età adulta. Tempo e spazio si incrociano così in una costellazione variabile di mutamenti e di quotidianità, di traumi e di trasformazioni, che «fanno del cinema ancora una volta la nostra lingua sconosciuta» (dalla locandina di Fuori Orario che nel marzo del 2011 trasmise tutta quest’opera abnorme quanto assoluta, cambiando la vita di molti, anche la mia). Quella lingua, appunto. La stessa che sette anni dopo porta Edgar Reitz sempre a scuola per realizzare Filmstunde, successivamente ‘italianizzato’ in Ora di cinema: un’aula del liceo femminile di Monaco si trasforma in uno studio cinematografico sotto la direzione del giovane regista. La lezione del film inizia: il primo tentativo documentato per insegnare l’estetica cinematografica come materia autonoma, anche nell’atto pratico. Un’altra Germania (dai confini con la cortina di ferro alla Baviera), altri momenti (ci fu un muro costruito nel mezzo) e altre prospettive (dalla narrazione sperimentale di un luogo a un incredibile esperimento di didattica); ma una generazione mirabile di autori (era la Junger Deutscher Film) assai differenti e stratificati, che lavorava con estrema genialità e libertà nel riscrivere una lingua all’interno di un linguaggio.
Veniamo dunque all’oggi, nel 2020, quando lo stesso Reitz viene avvicinato da una donna anziana che si identifica come una delle sue allievi del 1968. I due organizzano una riunione di classe, da qui nasce questo film allo stesso tempo teorico ma dalla straordinaria umanità. Si ritrovano per riguardare appunto Filmstunde, il documentario televisivo che è stato realizzato sul progetto scolastico; la pandemia aveva interrotto il piano, ma intanto Reitz coglie l’occasione per scrivere le sue memorie, Filmzeit, Lebenszeit: Erinnerungen, in cui cita questo film (quasi) mai visto come progetto fondamentale nella sua carriera. Era il Sessantotto, appunto, quando il giovane Edgar si presentò in una scuola per sole ragazze a Monaco, trasportando con se unicamente una borsa con cineprese Super8, con le quali le ragazze potevano guardare il mondo attraverso un mirino, cambiare il fuoco, giocare con l’obiettivo. E così hanno fatto, trascorrendo i mesi a correre nelle campagne bavaresi come in città, come minuscole troupe a sconvolgere lo stato delle cose, girando con impazienza le loro famiglie, la vita di strada e le peculiarità locali in quelle che sono diventate capsule di tempo nostalgico, straordinariamente fresco quanto dilatato, drammaticamente perduto e così magicamente ritrovato. La speranza e la dolcezza di un’immagine che oltrepassa il tempo dell’orologio per quello della persistenza, il cinema che non si nega mai e si mostra anche chi non lo può conoscere. Nel frattempo, Reitz li ha guidati attraverso concetti come la scelta di campo e il montaggio, lo specifico filmico e la teoria degli autori, ponendo domande aperte e lasciando loro discutere le risposte, quasi mai dietro la cattedra ma quasi sempre tra i banchi. Un insegnamento quasi socratico, a chiedersi prima di che cosa sia il cinema, in un certo senso cosa lo possa (e lo potrebbe) diventare. Doveva essere una classe sperimentale per poi magari esportare il modello su scala più ampia, invece così restò, una piccola rivoluzione nell’anno delle rivoluzioni; pensiamo a ciò che oggi sarebbe una possibile alfabetizzazione mediatica rispetto alle generazioni che ora vivono la scuola, considerando a come ora i dispositivi di ripresa possano essere estremamente più semplici e agevoli, già in mano agli studenti. Ma questa, forse, è un altra storia. Rimangono quei cortometraggi di quelle ragazze, come una specie di cariatide del tempo in uno spazio che è stato, in un movimento perpetuo. Un attimo, per sempre.
«Questo cinema ha bisogno di nuove libertà: deve essere liberato dalle convenzioni abituali dell’industria cinematografica, da qualunque tentativo di commercializzazione, da ogni tutela finanziaria. Nei riguardi della produzione del nuovo cinema tedesco, abbiamo delle idee concrete sul piano intellettuale, estetico ed economico. Insieme siamo pronti ad assumere i rischi economici. Il vecchio cinema è morto, crediamo in quello nuovo». Così si chiudeva il Manifesto di Oberhausen, un anno dopo che l’epopea di Golzow iniziò e cinque prima che si tenessero queste lezioni a loro modo uniche all’interno di tutta la storia del cinema. Cosa ne abbiamo fatto, dunque, di tutta quella libertà? Poco, quasi nulla, probabilmente. Come una possibilità rimasta in potenza. Questo lavoro collettivo (come poteva essere quello di Junge o forse quello di Low sui pescatori canadesi), sposta con meravigliosa leggerezza e flagranza il cinema da oggetto a soggetto. Uno scambio di crescita per l’autore e per le alunne, come se lo stesso percorso fosse il viaggio al di là dei cortometraggi (alcuni anche notevoli) realizzati dalle ragazze. «Io gioco, tu giochi, noi giochiamo… al cinema» diceva proprio Godard in uno dei suoi primi scritti sul cinema (appunto), e Reitz questo lo ha fatto mirabilmente nel Sessantotto per reiterairlo oggi, in questo magnifico Filmstunde_23 presentato come un ultimo regalo per l’anima quasi in chiusura della 74ma Berlinale, con quella stessa macchina che fu allora di Thomas Mauch e oggi di Jorg Adolph, e che scruta i volti interrogandoli ancora dopo oltre mezzo secolo, cercandone le emozioni e i solchi della durata passata; una camera che era, ed è ancora oggi, strumento di formazione del conoscere come del conoscersi. Tra scelte formali e pratica laboratoriale, urgenza e dialettica, confronto e creatività; il contatto con l’archivio del passato e la forma del presente, un dialogo aperto al futuro nella pratica del fare cinema, la sua ontologia personalissima quanto più che mai utopica e condivisa. «Se il film continuasse a non essere insegnato nelle scuole, avremmo fallito la rivoluzione più importante dell’educazione umana», dice Béla Balázs, che compare in questo gioiello a raccontare cosa poteva essere, e non è stato, mentre il film però è già oltre a tutto ciò. Al di là del senso di ricezione delle immagini e rieducazione dello sguardo, del rapporto tra l’individuale e il collettivo, tra la malinconia e l’assenza, resta una forma maieutica del guardare il mondo dietro alla macchina da presa. Quello che filma, proteso in un atto profondo di amore tanto per il cinema quanto per il gioco (nel suo senso più alto ed espanso). I bimbi di Golzow, come queste bimbe di Monaco, oramai son nonni e nonne, e i loro ricordi oggi (per dirlo alla Marker) non possono esser immaginati se non nel cinema. Ne hanno avuto la prova fisica nel rivedersi, come l’abbiamo noi, ogni giorno che fotografiamo, filmiamo, cerchiamo un campo della (nostra) memoria lottando contro la (nostra) finitezza. Un gioco appunto, al massacro, all’infinito, al cinema. Ma come finiva dunque quella breve poesia godardiana? Beh, così: «che strano gioco, è la vita!». Reitz, a oltre novant’anni, apprezzerebbe eccome.
Erik Negro