FILM ANNONCE DU FILM QUI N’EXISTERA JAMAIS: « DRÔLES DE GUERRES » (1ER TOURNAGE) (2023), di Jean-Luc Godard
Un film che c’è, nel suo non esserci. Già da metà anni Ottanta Jean-Luc Godard gioca coi suoi frammenti, specchia i suoi film in possibili scenari (che forse, in questo senso, ampliano la possibile traduzione in “sceneggiatura”), disegna schizzi e costruisce saggi nello strutturare un’ossatura parallela (a volte addirittura fondamentale) nella sua opera monumentale di ridiscussione – come nessuno ha mai fatto, come nessuno mai farà – dell’immagine in movimento. Tra questi frammenti ci sono una serie di immagini relative a un suo (im)possibile film postumo, una specie di trailer espanso – Film annonce du film qui n’existera jamais – di un lavoro che Godard, se non fosse stato «stanco», avrebbe realizzato per Yves Saint Laurent e che si sarebbe intitolato Drôles de guerres. Anche se, assai probabilmente, vedremo altre operazioni visive del gigante di Rolle (che ha lasciato ancora molti materiali e istruzioni ai suoi più recenti collaboratori Fabrice Aragno, Jean-Paul Battaggia e Nicole Brenez) questo 1er tournage propedeutico a quello che non sarà Phony Wars è e rimarrà dunque l’ultimo atto cinematografico da lui completamente terminato e validato nel corso della sua vita. Un film che con i suoi tre titoli annuncia il film che mai esisterà, un quaderno preparatorio che prende la forma da una serie di diapositive ritagliate attraverso idee ed embrioni di esse. Le guerre dell’oggi (da Sarajevo all’Ucraina, e la retrovisione verso quella civile spagnola) come l’eco dello ieri (anche quello tra sentimento e passione), nella revisione di un testo di Charles Plisnier (scrittore trotskista messo da parte dallo stalinismo), un trattato – anche ironico – di filosofia e storia, arte e cinema. In questa selva di elementi disposti su tela emerge il timbro della voce godardiano, quasi esanime eppure ancora così fermo nel desiderio di cercare una forma a cosa rimarrà nell’ipotesi dell’impossibilità. Appare Carlotta (ispirazione e/o fantasma), e poi una diapositiva monito come non mai a un futuro. L’obbligo di saper gestire il regno dell’assenza, la sua, la nostra, quella che sostanzialmente governa la materia oscura dell’universo tutto. Nessuna eredità nemmeno pare possibile, solo la corrispondenza di amorosi sensi che si crea tra chi produce e chi guarda un immagine, squarciando definitivamente la distanza fittizia che pensavamo tra osservatore e spettatore. Venti minuti, una fine come un nuovo inizio. Altro.
«Dopo Le Livre d’image (2018), Jean-Luc ha voluto adattare Faux passeports (1937), il romanzo di Charles Plisnier, composto da diversi capitoli che affrontano ciascuno un personaggio diverso in evoluzione […]. Ha l’idea di sviluppare un progetto attorno a due di questi personaggi, una delle quali si chiama Carlotta. Aveva immaginato una sceneggiatura per questo film in sei capitoli. Come il “primo dei numeri perfetti”, come amava dire. […] Jean-Luc ha voluto, per alcuni capitoli del film, girare in 35 mm in bianco e nero, in 16 mm e in Super 8 a colori. Voleva ritornare al modo di fare cinema dei suoi esordi, ma con la distanza di oggi. Era gennaio 2020. Mentre lui procedeva nel suo lavoro, io iniziai le prove tecniche. Ma la crisi del Covid e i successivi lockdown hanno notevolmente rallentato i nostri progressi. Jean-Luc, da parte sua, ha continuato a lavorare sulla carta. Ha sviluppato versioni successive della sceneggiatura che annunciava il film. Era una sorta di quintessenza del film a venire, un percorso verso le sue origini e, attraverso di esso, il film esisteva già!». In queste parole di Fabrice Aragno, principale collaboratore delle ultime opere godardiane, emerge la genesi di questo inestimabile lascito filmico presentato postumo a Cannes76, meravigliosamente oscuro nella sua sorprendente limpidezza e lucidità. Sarà lo stesso Godard a lavorare sul proprio tavolino con colla e foto, colori e frasi a creare un opuscolo “temporizzato” su questi fogli A5, poi assemblato da Aragno come film muto e completato successivamente con estratti audio e archivi da associare alla sequenze delle inquadrature. Un lavoro minimale, ieratico come la scultura, verso la sintassi più molecolare possibile del cinema, nel suo farsi minuscolo per spiegarsi poi verso l’infinito. Un traccia di forme e gesti come fu (attraverso tempi, modalità e sensi assai diversi) per Sauve qui peut (la vie) (1979) come per Passion (1982), e non solo, mostrando come l’idea all’origine dell’opera vale quanto – e forse più – dei film stessi; come se il loro corpo in fondo fosse solo una somma di associazioni di immagini e suoni, di sensazioni e di forme, e che in questo non costituiscono mai un insieme completo e compiuto (proprio perché nulla di completo e compiuto mai potrà essere, tantomeno al cinema). Forse sarebbe bello pensare così – per chiudere idealmente il cerchio – al primo lavoro di Godard, oramai quasi settant’anni fa, Opération béton (1955). La costruzione di una diga come possibilità di ri-costruzione del cinema, il cantiere fisico e quello del film nelle sue coordinate grammaticali; qui l’ossatura del romanzo diventa lo spazio possibile di un innesto continuo, dell’assemblaggio di traiettorie che si fondono in un unità strutturale del pensiero. Le memorie di un agitatore (il sottotitolo del romanzo di Plisnier), vividi e pulsanti, che ci interrogano ancora oggi radicalmente sulla domanda, quando tutto appare perso. Basta questo a rappresentare la potenza unica dell’itinerario godardiano, sempre più interdisciplinare e proiettato all’assoluto – dalle sue storie (la sua storia) del cinema, dal 1988 al 1998, in poi sarebbe impossibile guardare il Novecento con lo stesso occhio – nel fondere mirabilmente pittura, musica e poesia per creare una lingua dell’immagine sempre nuova e futura. Ciò che resta va ben oltre alla nostra presenza, perchè costantemente evocabile, materializzabile, rivivibile nella sua accecante luminosità etica ed estetica.
«Art’s despair: its desperate attempt to create the imperishable from what perishes, from words, sounds, stones, colors, so that the space formed might outlast time. Although the mighty build halls, filling them with torches and music, surrounding themselves with bodies and more bodies, and faces and more faces… that too was but a kind of sleep». Così proprio Godard – qui in inglese – nella seconda parte della Sezione 2B: Fatale beauté delle Histoire(s). La lotta verso questa forma di disperazione assoluta oltrepassa l’esserci della vita, e forse anche il non esserci della morte. Creare l’imperituro da ciò che perisce, scegliendo un testo che racconta, sostanzialmente (e personalmente), il crollo di un’utopia. Il romanzo di Plisnier (espulso dal Partito Comunista Belga per accuse di secessione internazionalista) si dipana tra la Rivoluzione di Ottobre e gli anni Trenta (uscirà nel 1938, l’anno precedente a quello delle Guerres Drôles – guerre false e/o divertenti – considerato il ’39, nel periodo tra le invasioni naziste di Polonia e Francia); un viaggio personale tra cinque personaggi che sperimentano a vicenda la violenza nella disillusione e distruzione di una speranza collettiva, dell’opportunità del creare un mondo diverso, dell’avventura che rifiuta il dogmatismo. «Rejecting the billions of alphabetic diktats to liberate the incessant metamorphoses and metaphors of a necessary and true language by re-turning to the locations of past film shoots, while keeping track of modern times», dice JLG del suo film. I frammenti che raccontano questo oggetto pian piano fanno emergere una possibile e provvisoria chiave di lettura, espandibile per i possibili tempi che attraverseremo. Ciò emerge ancora dalle parole di Aragno quando assemblò questo film su tavolo su indicazioni scritte da Godard, la sua commozione dell’occhio nel vedere apparire questa idea che si fa film, del movimento senza moto, del suono che si fa muto (tutto e viceversa, ovviamente). La disposizione irreversibile di questa immagini, la sua purezza drammatica e materica, dove il pensare è vivo e lucidissimo, qui e ora. «Jean-Luc è stato un regista fino al giorno prima della sua morte. E va anche oltre, con questo film che è vivo». E come sarebbe possibile dubitare di questo? «C’est votre affaire et non la mienne de régner sur l’absence». La didascalia (da Saint-John Perse), per comprendere forse in parte il tutto, recita così.
«Era il muro che dovevamo scavalcare per evadere dalle nostre vite e avevamo investito così tanto della nostra innocenza nell’idea che quel muro fosse destinato a frantumarsi. Eravamo divorati da Saturno. […] Il cinema ci aveva insegnato a vivere. Ma la vita, come Glenn Ford ne Il grande caldo, si era presa la sua rivincita. […] Per un caso François è morto, per un caso io sono vivo. Ma alla fine, fa differenza?». Scriveva così Godard mentre se ne andava Truffaut. Ma c’è così differenza tra l’allora e oggi, tra noi e loro, tra chi c’è e chi manca? L’assenza è un nostro problema, quella di chi rimane. Ma in fondo Godard è presente, continuamente, con le sue mani che lavorano la materia di questo film, scrivono e sottolineano, dispongono le immagini e i suoni, accompagnano la sua voce incerta. Nei volti che ci invita a guadare, in quelli che mostra dai suoi vecchi film (Notre musique, 2004, su tutti), nel pensiero che ci esorta a ricostruire sulle macerie del presente come del reale. Nel film che ci invita a immaginare proprio perché mai ci sarà e mai lo vedremo. Non si può che tornare, nella dispersione dei frammenti per poterne raccontare un altro, a una delle frasi che – in un certo senso – può fungere da delimitazione ideale del percorso che dalle Histoire(s) ci porta appunto qui. «Quand un siècle se dissout lentement dans le siècle suivant quelques individus transforment les moyens de survie anciens en moyens nouveaux e sont ces derniers que nous appelons art la seule chose qui survive à une époque telle quelle c’est la forme d’art qu’elle s’est créée aucune activité ne deviendra un art avant que son époque ne soit terminée». Godard che cita, modifica e amplia le parole di un altro gigante come Hollis Frampton nel Capitolo 4(b): Les signes parmi nous. Quali dunque sono questi segni rimasti a noi? Difficile dirlo oggi, anche in un domani. L’epopea godardiana è quella di un uomo che ha dedicato tutto il suo essere nel ripensare il mondo attraverso le immagini. I suoi segni rimarranno un monolite per chi verrà dopo di noi, un chiodo piantato nel futuro di una sempre più disumana umanità, un flusso di coscienze dalle infinite direzione. Dopotutto: io gioco, tu giochi, noi giochiamo al cinema. Che strano gioco è il cinema, che strano gioco è la vita! Fin(?)
Erik Negro