“Dolce e chiara è la notte e senza vento,
E queta sovra i tetti e in mezzo agli orti
Posa la luna, e di lontan rivela
Serena ogni montagna. O donna mia,
Già tace ogni sentiero, e pei balconi
Rara traluce la notturna lampa:
Tu dormi, che t’accolse agevol sonno
Nelle tue chete stanze; e non ti morde
Cura nessuna; e già non sai nè pensi
Quanta piaga m’apristi in mezzo al petto.
Tu dormi: io questo ciel, che sì benigno
Appare in vista, a salutar m’affaccio,
E l’antica natura onnipossente,
Che mi fece all’affanno”.
E’ logico pensare alla vita come una continua esperienza sensibile di spazi da poter condividere e ritrovare, o da poter attraversare in solitudine per concedersi un tentativo di comprensione. Pare questo uno dei punti d’incontro fondamentali per avvicinarsi all’idea che ha ri-portato Franco Piavoli, a ottantatre anni, dietro la macchina da presa e al Festival di Locarno. Festa, nei suoi 40 minuti, rappresenta la struttura di un momento breve, nonostante la sua genesi sia stata lunga e travagliata. Girato nell’estate di due anni fa tra Monzambano e Ponti, Volta Mantovana e Cavriana, apparentemente documenta l’aspetto ludico della vita di provincia, con particolare attenzione agli atteggiamenti dei propri abitanti, diventando poi poema visivo di sensazioni, quadro d’impressioni dallo sbocciare di un tramonto al termine di una notte. Si parte nel tardo pomeriggio di un qualunque giorno di San Pietro; il prete benedice e, mentre offre l’atto di rinuncia, dichiara aperte le danze. Così si mangia e si beve, si balla e si ama, si gira sulle giostre e ci si scontra con le macchinine. Tutti insieme in una piazza, tutti nella loro solitudine del pensiero: La sera del dì di festa, appunto, dove Giacomo Leopardi è la pura potenza immaginifica delle immagini.
“Ahi, per la via
Odo non lunge il solitario canto
Dell’artigian, che riede a tarda notte,
Dopo i sollazzi, al suo povero ostello;
E fieramente mi si stringe il core,
A pensar come tutto al mondo passa,
E quasi orma non lascia”
Non c’è nessun senso di cronaca in tutto ciò, solamente un lavoro di immaginari, un ritratto comportamentista al confine dei luoghi che ancora possono essere radice, quelli in cui la (auto)rappresentazione è quotidiana, e lo svelarsi è solo l’affermazione di un gran (piccolo) teatro del mondo. Tra la giovane ginnasta che volteggia nell’azzurro e l’anziano dallo sguardo assente che infilza gli spaghetti non esiste differenza qualitativa né tantomeno quantitativa dell’essere, solo l’esigenza di esistere e del mostrarsi, la possibilità di un incontro che squarci la solitudine interiore che ci appartiene. Perché come in tutte le feste c’è chi alla Festa non partecipa (l’uomo chiuso in casa) e chi non può partecipare (quello in carrozzella), che dal vetro di una finestra ne intuiscono lo scorrere, ne percepiscono l’eco sapendo che quella stessa festa probabilmente è la stessa, e nessuno si accorgerà se loro vi ha partecipato o meno, perché nessuno è veramente li. Come in ogni festa, anche in questo film pare che l’attimo possa esistere solo nel momento dell’essere girato, così come il (soprav)vivere nella circolarità del paesello che respira con una fisarmonica ed un ballo, un bacio ed un addio. La macchina da presa si allontana dalla Festa per cercare il particolare, per insistere sulla parte, per definirne il tutto. La durata frantuma il tempo, nelle rughe dei volti, nei calli delle mani, nelle voragini degli occhi. E così è il senso della ritualità pagana a scavalcare l’invocazione iniziale, il suo sovrapporsi ellittico e vorticoso di un “divertissement” possibile, unico strumento linguistico nel combattere l’angoscia dell’esistere. Il volo del calcinculo, la bandiera nelle mani, il sogno.
“Or dov’è il suono
Di que’ popoli antichi? or dov’è il grido
De’ nostri avi famosi, e il grande impero
Di quella Roma, e l’armi, e il fragorio
Che n’andò per la terra e l’oceano?
Tutto è pace e silenzio, e tutto posa
Il mondo, e più di lor non si ragiona”.
Rimane la meraviglia, forse, o il piccolo senso di fragilità che sublima ogni frammento di quell’entract. Non è “una” festa, è LA Festa, è la partecipazione collettiva, è la condivisione: è la giovanissima in coda per le giostre e sono le rughe sporche di cibo intorno alle bocche degli anziani; è la realtà, è la messa in scena, è l’universalità di un’opera, è la fotografia d’un mondo. Il tappetto sonoro di musica e parole, suoni e silenzi si amalgama con l’immagine codificandone spesso l’impressione dell’animarsi di un villaggio. E il digitale di bassa definizione restituisce altresì la percezione diretta e sensibile di quell’impressione, il rumore nero (e bianco) di un fotogramma potrebbe essere l’errore tecnico del cinema numerico come la romantica apparizione di qualche ultima piccola lucciola che spunta nel bosco. Così come la soggettiva dell’abitante di una giostra che acquista velocità e restituisce un’altra impressione di luci tagliate e scomposte che astraggono definitivamente la pretesa di raccontare e abbracciano l’esigenza di emozionare, a contrapporsi con la folle corsa di una moto all’interno di un videogioco, in apertura. Così, come in ogni Festa, la Festa finisce, il sogno sfuma, la parentesi si chiude.
“Ecco è fuggito
Il dì festivo, ed al festivo il giorno
Volgar succede, e se ne porta il tempo
Ogni umano accidente”.
Rimane la luna e, sotto di lei, due ragazzi che vorrebbero appartenersi. Questo film, vicino alla produzione dello stesso Piavoli dei cortometraggi anni sessanta (Domenica sera in particolare), è difficilmente giudicabile perché affresco intimo e personale, alla probabile ricerca di un ricordo perduto, uno qualsiasi forse, ma che possa evocare uno scarto di senso, un errore della reiterazione dei nostri giorni, solo per affermarli. Rimane appunto questo saggio sulle relazioni umane, a forma di gioco sensuale e materico ma allo stesso tempo tremendamente dolce e sfuggente. Così oltre alla festa finisce anche la notte, e dell’alba nessuno potrà ancora sapere nulla, nemmeno conoscere la sua speranza.
“Nella mia prima età, quando s’aspetta
Bramosamente il dì festivo, or poscia
Ch’egli era spento, io doloroso, in veglia,
Premea le piume; ed alla tarda notte
Un canto che s’udia per li sentieri
Lontanando morire a poco a poco,
Già similmente mi stringeva il core”.
Erik Negro