FERRARI (2023), di Michael Mann
«La vita è un ansimante cammino in una smisurata prigione in cui tutti noi siamo rinchiusi, siamo costretti a vivere», dichiarava il vero Enzo Ferrari in una delle sue rare interviste. Una frase che, stando al suo breve racconto, si era appuntato da qualche parte in giovanissima età senza immaginare come sarebbe stata destinata ad accompagnarlo lungo tutta la sua vita, e su cui pur senza citarla Ferrari, ritorno alla regia di Michael Mann a otto anni di distanza da Blackhat, cuce intorno l’intero impianto narrativo di un film costantemente proteso nella dialettica fra la vita e la morte, fino alla perfetta coincidenza della vittoria e della tragedia, della fine e dell’immortalità, della strada e della memoria, dell’amore e della distruzione, dell’ascesa e della caduta. Un film che si immerge nella primavera del 1957 di Enzo Ferrari, dalla morte in pista di Eugenio Castellotti impegnato a cercare di riprendersi il record sul giro appena strappato al Cavallino dalla Maserati fino alla gomma bucata che a Guidizzolo farà letteralmente volare l’auto di Alfonso De Portago contro gli spettatori di quella che sarebbe stata l’ultima Mille Miglia, uccidendone nove. Passando per il progressivo disfacimento dei suoi tentativi di tenere nascosto il figlio illegittimo Piero alla moglie, per il disgregarsi della sua routine (bi)familiare e per il serio rischio di fallimento della fabbrica e della scuderia fondate dieci anni prima, non ancora abbastanza vincenti per intercettare più acquirenti delle auto da strada, e incapaci di vendere abbastanza auto da strada per ripianare le folli uscite destinate al reparto corse, a ben vedere l’unico reale interesse di Ferrari. Una passione consapevolmente e necessariamente letale, un brivido di gioia terribile per cui rischiare e lasciare rischiare la vita ai piloti, volontariamente disposti al sacrificio sull’altare della velocità, consapevoli che all’eventuale martirio non potrebbe che corrispondere l’immortalità della memoria personale e storica di chi rimane. «Oggi sono 24 anni che sono morti lo stesso giorno Campari e Borzacchini, guidando due auto costruite da me», dirà sin da subito il protagonista alla tomba del figlio Dino a sua volta scomparso prematuramente a 34 anni per distrofia di Duchenne. Per poi sottolineare, nella sua arringa ai piloti in cui inculcare loro la fame della vittoria, come non ci sia spazio per l’esitazione: «morire piuttosto che frenare», perché l’altro pilota con cui si sta incrociando la traiettoria nel medesimo istante sta sicuramente pensando che al massimo si morirà tutti e due. Un approccio glaciale, perfettamente anaffettivo eppure profondamente innamorato dalla sua stessa ossessione per la corsa e per la vittoria in quanto competizione, adrenalina, costante superamento dei (propri) limiti, intima e ineluttabile necessità. Solo in privato nel cimitero, mentre il protagonista si confessa a cuore aperto con quell’erede che non c’è più, possono trapelare qualche sentimento e qualche umana debolezza, mentre tutto il resto di Ferrari, aprendo in questo periodo a un possibile e curioso parallelo a distanza con Oppenheimer ma questa volta del tutto privo di sensi di colpa, è un film sul brivido della corsa e sulla creazione che rende distruttori, sul genio che finisce quasi inevitabilmente per coincidere con la morte. Una morte sempre presente in ogni interstizio del film presentato in concorso all’80ma Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, adattato dallo sceneggiatore Troy Kennedy Martin sulla base del romanzo Enzo Ferrari: the man, the cars, the races, the machine di Brock Yates e messo in scena da Mann fra i dettagli del cinema classico americano e la pura adrenalina dell’azione motoristica. Una morte il cui rischio è intrinsecamente parte della corsa, la posta in palio, l’azzardo, l’abnegazione, il coraggio, l’eroismo, l’erotismo, l’amore. Il vero scopo del gioco, forse, con quella lettera sempre uguale lasciata da ogni pilota all’amata sapendo perfettamente che prima o poi ne verrà letta una sola, che sarà l’ultima, ma che se ne saranno andati senza alcun rimpianto perché consapevoli di avere dato tutto, di non avere mai alzato il piede, e per questo di essersi guadagnati un piccolo posto in cui rimanere per sempre nella Storia. Veloci come quello straniante effetto vertigo sulla strada della corsa che in qualche modo contiene da solo tutto il senso claustrofobico e terminale di Ferrari, tutto il suo retrogusto di trapasso e sconfitta anche mentre si alza l’alloro della corsa più importante, o anche mentre arriva quella telefonata di Gianni Agnelli che salverà l’azienda e le garantirà il futuro.
Eppure, al di là del costante procedere sul crinale fra la vita e la frazione di secondo in cui commettere il minimo e fatale errore (o magari ritrovarsi impossibilitati a frenare o a cambiare per un guasto meccanico), sembra che a Ferrari manchi un reale impianto metaforico, in grado di prendere la figura del protagonista e renderla realmente simbolo universale. C’è il suo complicato convivere con due famiglie (una agli sgoccioli e l’altra legalmente impossibile), c’è la sua ossessione per la velocità, per le donne e per la concentrazione oltre i limiti, ci sono i suoi ricordi di ogni singola vita sacrificata e c’è l’impossibilità in pista come nella vita pubblica di tentennare per guardare indietro, c’è l’opera lirica vecchia passione di gioventù con cui ripensare il passato e il futuro e c’è il suo inanellare successi per poi rendersi sempre e inevitabilmente conto di avere perso (un figlio, gli amici, i piloti, un record sul giro, l’indipendenza e il controllo su una Scuderia costretta a bussare per vie traverse alle porte della Fiat per cercare nuovi fondi in cambio di azioni, ma anche i rapporti di forza con una moglie che gli impedirà fino alla sua morte di dare il cognome al figlio illegittimo Piero attuale vicepresidente della Ferrari, e forse perfino parte della rispettabilità nella gogna mediatica a più riprese scatenatagli contro, o con le accuse di omicidio per negligenza ed errori di progettazione, dalle quali sarà poi assolto con formula piena, in occasione del tragico incidente della, a sua volte in punto di morte, Mille Miglia). Ma di fatto il film non vuole partire dalle situazioni biografiche per sviscerare e approfondire, un po’ come fecero Abel Ferrara con Pasolini o Larraín con i vari Neruda/Jackie/Spencer, ma gli esempi potrebbero essere mille altri da Tonya al già citato Oppenheimer, un aspetto piuttosto che l’altro, e in definitiva aggiunge molto poco, sicuramente non più del recente Ford v Ferrari di Mangold (ma forse anche Rush di Ron Howard aveva in definitiva qualcosa in più da dire sul senso delle sfide al volante), a ciò che già si sapeva della figura del fondatore della più celebrata casa automobilistica italiana. In aggiunta a un problema linguistico che, per una volta, ha spinto a desiderare quasi una versione doppiata in luogo dell’originale, non tanto per l’inglese – comunque problematico – in cui si esprimono i protagonisti, quanto per la scelta un po’ fastidiosa (probabilmente fatta per aggiungere credibilità al pubblico statunitense sulla base della visione internazionale e stereotipata dell’Italia, ma finendo inevitabilmente per perderla presso quello del Belpaese) di far pronunciare ogni tanto ai meccanici qualche parola a caso in italiano. Del resto è evidente lo sguardo (un po’ arrogante) degli USA sull’Italia, in Ferrari. Uno sguardo hollywoodiano e visivamente spettacolare, straordinariamente orchestrato bigger-than-life da un maestro della regia e assolutamente perfetto in ogni dettaglio (comprese intere pavimentazioni filologicamente rifatte come al tempo e poi ripristinate la notte successiva in asfalto, o intere file di pali della luce modificati per il tempo delle riprese a Modena, Bologna e Brescia e poi nuovamente sostituiti) e in ogni singolo stacco di montaggio, eppure non certo esente da cliché nell’unione fra sacro e profano (l’omelia del sacerdote che parla di motori mentre l’intero auditorio di fedeli sembra sentire solo il ticchettio dei cronometri della pista) e in un utilizzo della lingua in cui sembra quasi che l’italiano sia alla stregua di un dialetto utilizzato solo dalle figure più basse della piramide sociale, mentre chi realmente conta e merita una caratterizzazione parla esclusivamente in inglese senza curarsi di qualche pronuncia a tratti grottesca dei nomi. Sia ben chiaro, l’interpretazione di un Adam Driver con i capelli brizzolati corti e le orecchie mai così diritte è assolutamente degna della sua fama e del suo curriculum, così come lo sostiene magnificamente, con e senza pistola, la moglie Laura affidata a Penelope Cruz, ma è difficile non avvertire lo stesso una qualche forzatura nel sentirli dialogare, così vicini eppure inevitabilmente così lontani dai luoghi e dalle situazioni che stanno rivivendo nella messa in scena. Poi, certo, rimane la bocca aperta di meraviglia di fronte alle sequenze in auto e agli incidenti, rimane la magnificenza della polvere sul viso dei piloti quasi come fossero i soldati in trincea di un film di guerra, rimane la costante tensione verso la disperazione e la morte – tanto che al Lido c’è già chi definisce Ferrari “il The Irishman di Michael Mann” – e rimangono i tanti momenti di grandissimo cinema che, fra elaborati movimenti di macchina e qualche pedinamento a mano, solo i più eminenti autori sono in grado di concepire e portare su schermo. Eppure da Michael Mann, tanto più dopo un così lungo silenzio, e con un progetto così importante e ricco di potenziali spunti per le mani, sarebbe stato probabilmente lecito aspettarsi qualcosa in più, senza sbavature di traiettoria, senza macchie d’olio a metà curva, senza inaspettati buchi nelle gomme. Al punto che allo scorrere dei titoli di coda, mentre si tenta di riguardare Ferrari nello specchietto retrovisore, si finisce per ritrovarsi in una posizione mediana, equidistanti fra i non pochi entusiasti e i numerosi detrattori, pronti a tenersi tutto ciò che c’è di bello ma anche a rimpiangere le migliori sortite di un autore fra i maggiori americani viventi. Al contempo vincitori e sconfitti, proprio come l’Enzo Ferrari del film. Chissà che non fosse proprio questa vicinanza nell’ambiguità emotiva l’obiettivo ultimo di Michael Mann.
Marco Romagna