Prima di tutto, Faithfull è il racconto di una metamorfosi. Perché Faithfull è la Marianne di ieri, la dolce biondina dalle forme perfette e dalla voce soave che fece girare la testa a Mick Jagger, la bomba sexy che in Nuda sotto la pelle strizzava il poderoso seno sotto la giacca nera da motociclista, e Faithfull è la Marianne di oggi, il corpo imbolsito e provato da una vita di eccessi, la voce ormai roca e cavernosa (quanto, però, calda ed emozionata) mentre sul palco o di fronte alla macchina da presa di Sandrine Bonnaire torna indietro e parla della sua vita. Faithfull sono le due Marianne, i suoi due distinti corpi e le sue due distinte voci, che si rincorrono fra gli anni Sessanta/Settanta degli spezzoni dei film o delle interviste del tempo e la quotidianità dell’anno e mezzo di incontri con la regista. Fra l’una e l’altra, una vita di vertiginosi alti e di dolorosi bassi, una vita di talenti e di dipendenze, una vita vissuta sul limite, una vita di cadute dalle quali, in qualche modo, rialzarsi. Una vita nella quale “lasciare un segno”, o forse più d’uno. In sala di registrazione come in giro per il mondo, sui palchi. Gli anni Sessanta diventano il duemiladiciassette, la bellezza audace e irraggiungibile di un tempo diventa il fascino di una signora di mezza età che non nasconde i suoi anni né i suoi (chili) trascorsi, e sembra quasi che “la nuova” Marianne Faithfull sia in un certo senso sopravvissuta alla “vecchia”, al suo passato oscuro che ritorna nella voce sofferente, ai suoi dolori che, in maniera mai invadente, vengono riaffrontati nel corso delle interviste di Sandrine Bonnaire.
Faithfull sono gli aneddoti e i traumi di una vita vissuta al massimo, e forse ancora più in là, da una donna ribelle oltre i limiti dell’autodistruttivo. Marianne Faithfull racconta i suoi esordi, la Swingin’ London, la sua storia travagliata con Mick Jagger, i successi planetari di As Tears goes by e Sister Morphine delle quali scrisse i testi. Racconta il mondo del rock, quello del pop, quello del cinema e quello del teatro, e poi racconta la sua caduta dall’aristocrazia ai bassifondi, la sua dipendenza dall’eroina con tanto di arresto a casa di Keith Richards e la conseguente caccia alle streghe dei giornali scandalistici, i suoi ripetuti tentati suicidi, la fine dell’amore affogato nell’alcool, l’anoressia, il barbonaggio a Soho, il foglio di via dagli Stati Uniti come persona non grata e le milionate di sigarette che le hanno graffiato la voce, incenerite fra la depressione e l’oblio. Fino alla rinascita, come un’araba fenice, nei suoi nuovi panni, con il ritorno ai palcoscenici della musica pop come una delle interpreti mondiali più apprezzate.
Non è quindi difficile per Faithfull, che dopo essere passato fra gli HeartBeat del DocLisboa giungerà nei prossimi giorni anche al Torino Film Festival nella sezione Festa Mobile, trovare i suoi immediati spunti di interesse. Stanno tutti nella straordinaria biografia che la protagonista Marianne Faithfull ripercorre, stanno tutti nei suoi eccessi e nella sua parabola, stanno tutti nella forma sinusoidale della sua carriera, così metaforicamente incarnata dal suo corpo e dai segni che inevitabilmente porta. Ma proprio qui sta anche il limite di Faithfull, che finisce per puntare tutto sulla straordinarietà di Marianne, limitando l’intervento cinematografico a pescare dagli archivi per fare da cornice al flusso di parole, microstorie e concetti che emergono dalle interviste. Faithfull è un documentario tutto sommato puntuale, che torna su una vita e su una carriera (che poi sono state due vite e almeno tre carriere, intrecciate con stelle della musica, del palcoscenico e della celluloide) e che mette a confronto due donne, due attrici e due artiste che dalle iniziali reticenze si aprono gradualmente alla fiducia e all’amicizia. Ma, in tutto questo, Sandrine Bonnaire si fida troppo dell’“argomento” e della sua “protagonista”, limitandosi a una confezione in sostanza televisiva, più attenta a essere funzionale alla testimonianza di Marianne che a metterla davvero a nudo, a sviscerarne i sentimenti più reconditi, a capirla e a permetterle di capirsi.
Marianne Faithfull, ora finalmente tranquilla, torna sulle contraddizioni della sua vita, sui momenti di gloria e sugli istanti più irrequieti, sulle sue dipendenze e sulle sue difficili disintossicazioni, sui suoi anni da homeless nelle più degradate periferie e sul suo sangue nobile destinato a tornare a pulsare quando Sofia Coppola la riportò al cinema con Marie Antoinette a quarant’anni esatti dal suo esordio nel ruolo di se stessa nel Made in USA di Godard. Mentre il footage, pulito e senza sbavature, accompagna le sue parole e le contestualizza in immagini, senza però riuscire a scalfirne la superficie, come se rimanesse un passo indietro, come se la reverenza dell’ammiratrice bloccasse e facesse ristagnare le potenzialità della documentarista. C’è stima reciproca, fra Sandrine Bonnaire e Marianne Faithfull, c’è un rapporto che si instaura e cresce a vista d’occhio fra due donne e colleghe, ma mancano le pennellate stilistiche che sarebbe stato lecito aspettarsi, mancano momenti di sincera emozione al di là dell’aneddoto più o meno “sofferto”, mancano il pathos, l’epica e la poetica del linguaggio. Faithfull è un servizio “fatto bene”, che punta quasi tutto sulla straordinarietà della vita che si racconta e la accompagna con le necessarie sortite in archivio, prodotto più che buono per passare un’oretta di fronte alla televisione, interessante, ammiccante il giusto, e a suo modo accorato. Ma il cinema, specialmente di fronte a una vita come quella di Marianne Faithfull, può fare molto di più.
Marco Romagna