Bacigalupo
Ballarin
Maroso
Grezar
Rigamonti
Castigliano
Menti
Loik
Gabetto
Mazzola
Ossola
Formazione del Grande Torino, caduto a Superga il 4 Maggio 1949
Torino, 1970. Massimo ha solo nove anni ed è fresco orfano di madre. Di fronte alla finestra di casa, si stagliano imponenti gli spalti del vecchio Comunale: è domenica pomeriggio, scende in campo il Toro. Il padre prende il figlio per mano, gli calca il berretto granata sulla testa, si lega la sciarpa d’ordinanza intorno al collo e insieme attraversano la strada per iniziare a salire i gradoni dello stadio. Sono quelle passioni matte e disperatissime con le quali si nasce, tramandate di padre in figlio, eppure Massimo è triste e stranito, fissa il campo come se non lo vedesse, della partita gli importa poco o nulla, riesce a pensare solo al drammatico vuoto che avrà davanti per tutta la vita. Poi però, al termine di un’azione insistita di Aldo Agroppi, segna Claudio Sala, e bastano pochi secondi dopo il gol, intravvisto in braccio al padre fra la selva di teste, perché possa ricominciare a dipingersi sul volto del bambino un abbozzo di quel sorriso che mancava da troppo tempo.
Fai bei sogni, ritorno alla regia per Marco Bellocchio a pochissimi mesi dalla passerella veneziana di Sangue del mio sangue, è prima di tutto un bilancio poetico e sognante. È il bilancio di un’intera vita, di una lunga e dolorosa elaborazione del lutto, di un mondo del giornalismo incartapecorito dalla retorica, dal buonismo di facciata e dal pelo sullo stomaco nella contemporanea ricerca della notizia a tutti i costi. Ma è anche, in un certo senso, un bilancio e una summa del cinema di Bellocchio, una nuova e felice declinazione delle tematiche da sempre più care al regista di Bobbio, dalla famiglia alla religione, dalla Storia alla depressione, dalle implicazioni politiche nel quotidiano sociale alla sfera onirica e ludica come unica possibile salvezza dai dolori della vita, dal passato che ritorna a sconvolgere il presente all’attenzione morbosa che diventa patologia. Immancabili poi la presenza nel cast del figlio Piergiorgio e la partecipazione amichevole, in un ruolo breve ma chiave, dell’ormai fedele sodale Roberto Herlitzka, fino alla fotografia in 35mm firmata da un quanto mai ispirato Daniele Ciprì con una profusione altamente emotiva di luci di taglio ulteriormente valorizzate dalla scelta di una grana dell’emulsione particolarmente viva e avvolgente. Fai bei sogni, presentato in apertura della Quinzaine dei Réalizateurs a Cannes 2016, prende le mosse dall’omonimo romanzo autobiografico del giornalista e scrittore Massimo Gramellini per tuffarsi in un viaggio nel cuore, in un’accorata lettura dell’infanzia, in un’elegia raffinata quanto necessariamente sghemba sulla difficoltà di crescere, fra acute e decise stilettate al mondo della carta stampata, sana passione per il calcio e sublimi istanti di una tenerezza straziata che solo l’innocenza di un bambino – e la mano di un grande cineasta – possono regalare.
Urge a questo punto una premessa fondamentale: pur stimando lo stile di scrittura, la viva intelligenza e la commovente fede calcistica del ‘cuore Toro’ Massimo Gramellini, non riusciamo ad amarne il personaggio, quantomeno per quello che traspare dalle frequenti apparizioni televisive. Ci è sempre risultato in definitiva antipatico, arrogante e pieno di sé, troppo concentrato a trovare forme lessicali affascinanti per rendersi conto di autoincensarsi in ogni possibile occasione. E in questo senso, il lavoro di sottrazione rispetto al libro svolto da Bellocchio nella stesura della sceneggiatura è assolutamente straordinario: rimane la trama, che poi è la vita del giornalista a cui nessuno ebbe il coraggio di dire che la madre si era suicidata fino a quando scoprì da solo e ben oltre i quarant’anni le reali cause della sua morte; rimane Belfagor, passione cinematografica materna e poi sorta di amico immaginario per il figlio, sospeso nel cuore e nella mente di Massimo fra fantasma del passato e spirito guida autoritario per poter crescere senza impazzire; rimane la figura centrale della madre a metà strada fra l’amore (in)finito e il “tradimento” di chi abbandona la vita e il pargoletto; rimangono le menzogne raccontate per lunghi anni a Massimo dai familiari come le sue, colto da un sentimento di vergogna per essere orfano, sul presunto trasferimento della madre a New York; rimane la vivissima fede calcistica – in una delle sequenze più potenti del film – del giornalista sportivo con tanto di visita a Superga in occasione della commemorazione del Grande Torino. Cadono però, in questo processo di “degramellinizzazione” e “bellocchizzazione”, tutte le sovrastrutture spocchiose dell’autore del libro, come pure il diffidente rapporto iniziale con la moglie, sostituite dalle ormai immancabili riflessioni di Bellocchio sull’invadenza necessaria della chiesa e sulla freddezza spesso ipocrita di una stampa che, come dimostrato dalla sequenza ambientata a Sarajevo durante la guerra nel ’93, non si fa scrupoli a prendere di peso un bambino in stato di choc, nel quale Massimo non può che ritrovare il suo passato, per fotografarlo accanto ai genitori stesi in un lago di sangue. Bellocchio, in sostanza, ripulisce Gramellini e lo immerge nel proprio immaginario e nella propria coerenza cinematografica, meticciando I pugni in tasca con L’ora di religione, Sbatti il mostro in prima pagina con Nel nome del Padre. E il risultato è probabilmente il miglior Bellocchio da parecchi anni a questa parte, forte di un Valerio Mastandrea sontuoso nel ruolo di Massimo adulto.
Nelle forme del biopic, fra flashback, vicende personali che si legano agli eventi di cronaca e all’avanzare della Storia lungo oltre trent’anni e una notorietà che trasforma progressivamente Massimo in personaggio pubblico osannato a dispetto della sua umanissima mediocrità, Marco Bellocchio ricostruisce in maniera sorprendente un intero immaginario anni ’60-’70, nei colori e nelle abitudini, in Canzonissima e nei tuffi di Giorgio Cagnotto a Monaco, nei vestiti e nella composizione certosina di una colonna sonora che spazia da Gianni Morandi ai Led Zeppelin. Ma, fra coperte amorevolmente rimboccate e una lunga elaborazione del dolore, non dimentica di innestare una ricerca spasmodica della perduta figura materna, un’inesorabile decostruzione delle mistificazioni e le ormai classiche riflessioni al solito acute – da agnostico ortodosso – sul rapporto dell’uomo con la Fede. “Dio anche se non ci fosse ci sarebbe per dare un senso alla nostra vita”, dice il sacerdote-professore interpretato da Herlitzka, per poi rincarare con “Il se è dei falliti, nella vita si diventa grandi con i nonostante”, svelando ancora una volta e in due semplici frasi tutta la filosofia del regista nativo di Bobbio.
Ma è nell’aspetto della critica al giornalismo che il film trova probabilmente il suo apice: potremmo citare come esempio l’intero personaggio di Giovanni Athos, ricchissimo imprenditore che convoca a casa il protagonista, gli parla della necessità di aver sofferto ed essere disposti a perdere tutto per potersi elevare, riceve una visita della Guardia di Finanza con tanto di avviso di garanzia e si suicida praticamente in diretta, fornendo a Massimo lo scoop della vita e allo script di Bellocchio una telefonata agghiacciante e inumana con il giornale per fermare le rotative. E quando a un certo punto arriva alla redazione della Stampa la lettera di un probabile folle, sicuramente uno sfigato, che parla dei suoi problemi con la madre, il direttore affida proprio all’allora trentenne Massimo, orfano sin da bambino, l’incarico di rispondere, aprendo il cuore, raccontandosi e non rileggendo. Potrebbe apparire una parentesi smielata e retorica, e anzi lo è volutamente, ma Bellocchio ha l’intelligenza di smontarla e demistificarla nel giro di pochi minuti: prima con la telefonata di un amico sarcastico “Il libro Cuore, che pure è un capolavoro, ti fa una pippa”, poi con un “Si, si, mi è piaciuto” detto svogliatamente da Berenice Bejo, dottoressa conosciuta durante il primo attacco di panico e ben presto amata, durante la festa iperborghese a cui Mastandrea viene invitato poco dopo la pubblicazione della lettera. Nella risposta, Massimo Gramellini è perfettamente conscio di avere scritto una sequela di banali ovvietà, e anche nel libro non manca di farlo notare. Ma l’Italia è la culla dell’ovvietà e della strizzatina d’occhio al sentimentalismo, il regno dei mediocri e della retorica, ed è su questo che Bellocchio calca la mano, con la piena coscienza politica che lo ha sempre contraddistinto.
Ma, se da un lato rifiuta – a ragion veduta – il facile sentimentalismo, e anzi lo attacca apertamente, Fai bei sogni abbraccia pienamente il sentimento. È infatti impossibile non entrare in immediata empatia con i personaggi già dai titoli di testa, in una tenera – che ben presto si rivelerà straziante – danza fra madre e figlio, è impossibile non provare brividi durante i flashback dei giochi con la madre dopo la morte, è impossibile non soffrire quando il bambino di nove anni non vuole credere che dentro la bara ci sia davvero la mamma, è impossibile non commuoversi davanti alle lapidi di Superga, ed è impossibile – da accaniti genoani – non sentire una lacrimuccia che scende quando, in un Genoa-Napoli ascoltato alla radio, Eranio passa palla all’indimenticato e compianto Capitano Gianluca Signorini. Marco Bellocchio ha preso Gramellini, lo ha rimasticato, ha aggiunto elementi tipicamente bellocchiani, ha portato avanti ancora una volta tutte le sue istanze politiche e sociali, ha colpito con la solita arma dell’ironia, ha parlato di madri, lutti e giornalismo, è andato nuovamente a segno nel fare emergere le storture sociali e politiche del Belpaese. Ma soprattutto, alla base di Fai bei sogni, c’è un cuore che Bellocchio non riusciva a dimostrare da parecchio tempo. E che non riusciamo a toglierci dalla testa.
Marco Romagna