FAHRENHEIT 451 (2018), di Ramin Bahrani
Fuori concorso, al Festival di Cannes, approda il nuovo lavoro di Ramin Bahrani, statunitense della Carolina del Nord figlio di genitori iraniani, tratto dal fondamentale romanzo di Ray Bradbury Fahrenheit 451. Dopo At Any Price e 99 Homes, film che parlano dell’America com’è, di cui abbiamo apprezzato il tono umanista, il realismo discreto, senza fronzoli, si potrebbe dire “classico”, a Bahrani arriva la proposta della HBO di parlare di un mondo come sarà o come potrebbe essere, di mettersi nel solco di François Truffaut e tentare una riproposizione in chiave contemporanea dell’idea del maestro della fantascienza, un profeta prestato alla letteratura. All’operazione è stato aggiunto un valore in più, quanto meno potenziale: la sceneggiatura affidata a un maestro conclamato del cinema mondiale, anch’egli iraniano, intellettuale a tutto tondo alle prese con una storia parecchio nelle sue corde. Questo maestro è Amir Naderi, e non si capisce bene se il suo contributo sia stato in qualche modo affossato dalle dinamiche produttive e distributive del film (che non uscirà in sala, ma sarà trasmesso solo in TV) o se già in partenza abbia un po’ trattenuto il suo visionario istinto d’autore per mettersi maggiormente a disposizione del più giovane collega regista.
La storia è nota, ed è il classico scontro fra maestro e allievo, fra scafato comandante e promettente cadetto, fra Beatty (interpretazione sempre comunque ad alti livelli di Michael Shannon) e Montag (Michael B. Jordan, anche produttore esecutivo del film, lo abbiamo visto in Creed, dove sembrava adatto, qui invece nuoce abbastanza gravemente alla profondità del suo personaggio), entrambi con un arco di trasformazione canonico, assecondato dal giovane pompiere, interrotto dagli obblighi deontologici della sua posizione per quel che riguarda il capitano.
Il film di Truffaut – che, se non altro, resta sempre come sublime oggetto di design, catalogo di pezzi di stile (non solo scenografico, ma anche di summa cristallina di messinscena) – sposa la causa di Bradbury in un momento storico in cui lo spauracchio del rogo delle lettere, della proibizione della cultura e dell’annientamento globale (dal valore anche simbolico) dell’oggetto-libro è di là da venire, anzi di più, è impensabile, e perciò ancora più spaventoso, ancora più “fuori dal mondo”.
Ma sarebbe ingeneroso, se non inutile, un paragone con il film truffautiano, anche perché ciò negherebbe all’opera di Bahrani uno dei pochissimi pregi: mentre, infatti, Truffaut si interrogava sul peso più che altro filosofico, spirituale, della scomparsa dei libri dal mondo, Bahrani (e Naderi) compiono una scelta che sta molto più dentro i canoni della concezione contemporanea della fantascienza, e cioè ci mostrano un mondo che, in mancanza delle “lettere”, è ormai completamente galleggiante nella nebulosa delle immagine. Le immagini stanno sui grattacieli, sulle pareti di casa, proiezioni, riflessi, proiezioni di riflessi: insomma, l’immagine è ormai l’unico canale attraverso cui si articola ogni tipo di trasmissione dell’informazione.
Ma si limita solo a questo, forse, il contributo di Bahrani alla causa (possiamo aggiungerci, magra consolazione, i suggestivi titoli di testa), mentre, e questo ci è sembrata una lacuna più grande, si fa fatica a comprendere dove stia veramente la mano di Amir Naderi, che nel libro di Bradbury dovrebbe aver trovato un concept molto nelle sue corde, perché un’utopia al contrario come quella di bruciare tutti i libri del mondo deve aver stuzzicato la sua vena artistica più o meno come il tentativo impossibile di un uomo di abbattere un Monte a colpi di martello…
In ogni caso, l’operazione Fahrenheit 451 condotta nel 2018, in un momento storico in cui la scomparsa dei libri, e in generale della diffusione della cultura sulla carta stampata, non è più una chimera come fu per Truffaut nel 1966 ma un triste indirizzo dettato soprattutto dagli sviluppi tecnologici, sembra arrivare ben fuori tempo massimo, o se non altro sarebbe stata da riscrivere in una chiave diversa, che tenesse conto della velocità di trasmissione delle informazioni, del digitale, dell’e-book, di internet e dei suoi rivoli nascosti.
Invece si ha l’impressione che il film sia stato portato a casa dai suoi autori in maniera approssimativa, in una specie di bignami della fantascienza dispotica per i nuovi spettatori abituati al linguaggio della fiction e della serialità un tanto al chilo (in certi momenti sembrava di star assistendo a una specie di sequel di quel brutto film con Denzel Washington di qualche anno fa, The Book of Eli, dimenticabile, eppure rievocato da certi momenti in Bahrani), un film che limita la lotta alla cultura e al libro al solo orticello del territorio americano, e vede orizzonti di salvezza addirittura nel vicinissimo Canada… Poveri Bahrani e Naderi: quanto devono aver cantato forte queste sirene americane, e quanto poco stretti erano i nodi che li tenevano legati all’albero maestro.
Elio Di Pace