EYES WIDE SHUT (1999), di Stanley Kubrick

18 anni fa è morto Stanley Kubrick, generalmente ricordato come uno dei più grandi registi mai vissuti. Ma, come succede a molti altri registi di culto (Lynch, Hitchcock, Scorsese, Coppola), a volte la fama e le icone del suo cinema precedono per importanza e per impatto sull’immaginario collettivo la comprensione del perché di questa grandezza. Sfortunatamente ciò è perché è difficile, davvero, parlare di Kubrick; non tanto per la (indubbia) complicatezza della sua maniera di fare cinema, quanto per il generale senso di sindrome di Stendhal che tendenzialmente ogni spettatore cinefilo si ritrova a provare di fronte ad un suo film. Forse proprio scompare la riflessione di fronte ad una grandezza davvero troppo grande ed evidente, ma questa cosa rischia di portare alla sottovalutazione dell’umanità dell’autore, quasi portandolo involontariamente all’osmosi con la macchina da presa, e dunque con la macchina, e dunque con ciò che è disumano – o, almeno, così hanno fatto molti illustri detrattori, tra i quali Jacques Rivette. E, ricordando dunque che i detrattori di Kubrick esistono, non può che risultare che anche lui può, forse, come ogni altro regista, essere imperfetto, non intoccabile: insomma, c’è sempre qualcosa da dire, da ridire, da confermare. E in mezzo a questa semi-paura di scrivere di Kubrick in un’epoca in cui tutto sembra già confermato, il problema rimane, la sopravvivenza di queste immagini sconnesse da un significato, perfette come quadri e sogni ricreati in studio, ma prive di una ragione. Quindi, abbiamo deciso, non senza paura di non essere all’altezza del compito, di dedicare, per questo anniversario importante, un po’ di spazio sul nostro sito per parlare di Eyes Wide Shut, film conclusivo della carriera del regista, riassunto drammatico di un’intera carriera e capolavoro definitivo per la conclusione del ‘900.

Innanzitutto, qualche dettaglio di produzione. Eyes Wide Shut è tratto da Doppio Sogno (titolo originale: Traumnovelle, ovvero “Novella del sogno”), un romanzo del 1925 di Arthur Schnitzler appartenente alla corrente del decadentismo viennese e ambientato a Vienna alla fine del diciannovesimo secolo. Con questo libro, Schnitzler ha analizzato la scomparsa delle barriere in un rapporto di coppia, tra tradimenti, visioni oniriche e incomprensioni sociali, con un’aspra critica della società borghese che, secondo molti, è stata profondamente influenzata dagli scritti di Sigmund Freud, concittadino e ammiratore dello scrittore e drammaturgo austriaco. Kubrick ha deciso di girare il suo “doppio sogno” ambientandolo nella sua città natìa, New York, ambientando la trama, condita con svariate piccole modifiche, alla fine del ventesimo secolo. Tuttavia, il regista aveva ormai sviluppato una gravissima fobia del volo e non ebbe la possibilità di lasciare l’Inghilterra. La New York del film, difatti, è stata interamente ricostruita in studio sui set di Borehamwood a Londra. È dagli anni ’60 che pianificava un film incentrato principalmente sul sesso, e immaginava di fare una commedia con Woody Allen o con Steve Martin prima di leggere il libro di Schnitzler, di cui cominciò a parlare come di un possibile progetto futuro sin da inizio anni ’70. I protagonisti sono interpretati da Nicole Kidman e Tom Cruise, entrambi attori abbastanza affermati a Hollywood: lei ha conosciuto l’inizio della propria fama grazie a Billy Bathgate (1991) di Robert Benton, a Batman Forever (1995) di Joel Schumacher, a Da morire (1995) di Gus Van Sant e a Ritratto di signora (1996) di Jane Campion, anche se la maggior parte dei suoi ruoli più importanti e premiati giunsero dopo aver lavorato con Kubrick; lui, invece, aveva già avuto una carriera più lunga ed era un prepotente sex symbol anni ’80, anche se già da quasi una decade era diventato una figura controversa a causa della sua appartenenza a Scientology. Cruise aveva lavorato con svariati registi di ogni sorta, da Zeffirelli a Coppola, da Curtis Hanson a Ridley e Tony Scott, da Scorsese a Barry Levinson, da Oliver Stone a Rob Reiner, da Ron Howard a Sidney Pollack, da Neil Jordan a Brian De Palma. Era, insomma, un’icona affermatissima a Hollywood, un nome riconoscibile, un marchio: era il volto di Top Gun e di Mission: Impossible, era stato già nominato due volte agli Oscar. I due, inoltre, erano sposati dal 1989, ed erano tra le power-couple più discusse dello show business hollywoodiano. Sicuramente Kubrick era conscio di ciò quando li ha coinvolti in un progetto il cui girato è dovuto durare praticamente due anni consecutivi, trascinando i due attori in un vortice di perfezionismo che lasciava loro poco scampo e pochi spiragli in una possibilità di altri progetti (Cruise, ad esempio, sarebbe dovuto essere il protagonista di Matrix). Il film, dunque, è un record assoluto per quanto riguarda il tempo passato sul set consecutivamente — e, in ogni caso, il record assoluto per la scena rigirata più volte nel cinema è anch’esso un record segnato da Kubrick, per la scena della mazza sulle scale in Shining (1980). Kubrick morì durante la fase di postproduzione del film, e il montaggio della colonna sonora fu concluso sotto la giurisdizione di Steven Spielberg, che l’amico Kubrick ammirava profondamente. Non fu neanche l’ultimo favore che fece Spielberg a Kubrick, considerando che poi ha diretto A.I. (2001), uno dei tanti progetti che l’autore lasciò incompiuti. Sempre nel 1999, Tom Cruise ha recitato in Magnolia, uno dei film più celebri di Paul Thomas Anderson, nel quale interpreta un macho sessista meravigliosamente insopportabile che usa come sottofondo musicale alla propria introduzione sul palcoscenico la colonna sonora di 2001: Odissea nello spazio (1968), e ironicamente pare quasi un attacco scherzoso al mondo di Kubrick. Proprio nel 2001, tuttavia, Nicole Kidman e Tom Cruise divorziarono. I motivi del divorzio non sono stati divulgati, e la ragione più “considerata” è stata una motivazione religiosa, tra Cruise sempre più legato a Scientology e la Kidman fervente cattolica. Tuttavia, girano speculazioni sul fatto che il loro rapporto si fece più aspro già sul set, e che il film dunque abbia in un qualche modo influito sulla loro visione della coppia e della propria relazione — e molti dicono che Kubrick forse ha previsto e immaginato questo tipo di reazione da parte loro, ma non ci sono prove concrete.

(il nome di Kubrick appare dopo il nome di Cruise e la Kidman; e sono pure in ordine alfabetico, quasi come se l’ordine di priorità kubrickiana fosse già stato costruito involontariamente prima del montaggio)

Comunque, per il regista la presenza di questi attori era sicuramente fondamentale per stabilire un vero dramma amoroso, tant’è che i loro nomi appaiono prima del suo nei titoli di testa, e tutti e tre appaiono prima del titolo. A metà tra i nomi e il titolo, tuttavia, c’è un’inquadratura sconnessa da tutto il resto del film. Mentre in sottofondo continua a risuonare il Waltz no.2 di Shostakovich, viene mostrato il personaggio di Nicole Kidman, Alice, in piedi, di spalle, in una stanza ordinata, che si toglie il proprio vestito, rimanendo completamente nuda, tranne che per i tacchi, mostrando al pubblico il fondoschiena. Questa singola, brevissima inquadratura, è già importantissima, soprattutto perché viene subito prima della vera prima scena del film a livello narrativo, quella in cui Alice e Bill (il personaggio di Tom Cruise) si preparano per andare all’elegante festa del loro amico Victor Ziegler, scena in cui Alice si vede mentre si alza dal gabinetto, già vestita elegantemente, e si pulisce le parti intime. Un atto naturale, insomma, ma intimo, vero. La giustapposizione è chiara: due lati del sesso (femminile), prima un lato B mostrato sotto la lente dell’eleganza e dell’estetizzazione del corpo e poi un lato A mostrato nella naturalezza del quotidiano, non senza una sua goffaggine. L’estetizzazione, inoltre, appartiene ad una logica non-narrativa mentre la quotidianità rimane nel narrativo. Alice si spoglia per accendere gli occhi, soprattutto quelli del pubblico maschile ovviamente, come a evidenziare la natura intima e speciale del sesso, il proibito. Eppure, è tutto intriso di un’eleganza che sembra quasi disturbare l’aspetto pornografico dello sguardo, tant’è che Alice uscendo dal bagno pare evitare la macchina da presa, come se non accettasse questa visione. “Eyes Wide Shut” di per sé è infatti un titolo paradossale, traducibile (in maniera molto approssimativa) come: “occhi apertamente chiusi”. L’apertura degli occhi è un qualcosa di sessuale e di politico, è sia lo sguardo voyeuristico nel confronto dei corpi sia la coscienza della corruzione nella società, e dunque è sia una riflessione psicologica sia una lettura da teoria del complotto. Questo è il mondo di un nuovo cinema in cui il regista è una figura simile ad un personaggio, e i personaggi (come in Shining, in cui Shelly sul finale è vestita nella stessa maniera in cui è vestita una marionetta di Pippo appesa al muro) sono burattini.

(la giustapposizione tra nudo estetizzante della Kidman e pulizia igienica quotidiana è tra gli inizi in medias res più sottili del cinema tutto: l’inizio è estremamente d’impatto non per un evento o per un estremismo registico, ma per come venga mostrato parzialmente l’impianto tematico del film prima ancora che si possano seguire i suoi eventi)

La festa degli Ziegler è una scena apparentemente troppo lunga rispetto a quanto narrativamente è importante, ma in realtà semina già i germi del resto del film. Innanzitutto è palesemente la scena del film in cui maggiormente si sente l’eccesso di apparenza: tutto è perfetto e impeccabile, elegante e colorato, morbido e incorruttibile. Ma abbiamo già visto cosa cela tutta questa perfezione grafica all’inizio, tra la nudità e la correzione/corruzione di essa attraverso la quotidianità, e quindi già si percepisce la falsità di queste impalcature sociali, nonostante non sia esplicitata fino alla fine della macrosequenza, quando Ziegler chiama Bill per aiutarlo con una prostituta andata in overdose. Tra la musica e i colori uniformi, tra i movimenti suadenti e ambigui dei personaggi che sorridono falsamente, è come se lo sconforto non fosse esplicitato se non nei piccoli dettagli, nelle cose che succedono in sottofondo. L’anziano nobile ungherese che corteggia Alice ballando con lei è tra le figure più affascinanti e “pure” del film, nonostante la inviti all’adulterio, ma allo stesso tempo fa parte di questo scenario morboso e strisciante in cui nulla è ciò che sembra, nemmeno le comparse, quindi forse anche lui potrebbe essere parte di un qualche meccanismo assurdo e incomprensibile. Non possiamo capirlo, finché non apriamo gli occhi, probabilmente. Ma anche aprire gli occhi significherebbe tenerli chiusi, di fronte ad un mistero più grande dell’uomo stesso. Più grande di Bill, sicuramente. Bill si lascia corteggiare da due belle donne che tiene per braccio ma non risponde alle loro avances e non interagisce con la moglie, che nel frattempo, ubriaca, cede molto più di lui all’affascinante ungherese, che le offre di vedere la sua casa gremita di quadri rinascimentali.

(le due seduzioni subìte dalla coppia alla festa degli Ziegler differiscono anche per modalità di sguardo: il nobile ungherese pur essendo molto diretto è, a suo modo, gentile ed elegante, mentre le due ragazze che si avvicinano a Bill usano la propria sensualità in maniera molto più volgare e diretta)

Il montage che mostra la quotidianità della coppia è un crescendo di tensione: poco o nulla succede se non una semplice dimostrazione di una routine, ma questa routine sembra comunque pregna di tensione sessuale e materiale, tra lo spettatore che è quasi costretto a sessualizzare il seno di una paziente di Bill fino alla noia di un’Alice che sembra quasi esistere solo in funzione dell’attesa di un amplesso – a ritmo di rock n’ roll, riflessi in uno specchio che mostrifica la loro sessualità, per eliminare ancora di più quell’eleganza classica fatta di waltzer e vestiti lunghi, sostituendola con il narcisismo e un marciume presupposto dalla nudità; un marciume fatto dagli uomini e dai loro sguardi, non un marciume naturale, la naturalezza della nudità e del suo quotidiano rimane pur sempre un qualcosa di umano e di costruito dallo sguardo umano. I corridoi rossi che ricordano Shining aumentano questa sensazione di tensione, che culmina nel momento più inaspettato, ovvero in un’occasione in cui in teoria Bill e Alice dovrebbero rilassarsi: una intima e semplice sessione di fumo di marijuana – insomma, un altro aspetto nascosto della relazione, l’intossicazione, il veleno, una minuscola lotta contro la legge. Per prepararsi alla sessione Alice si esibisce in una specie di intima danza minimalista solamente per noi spettatori: seducente, cammina verso il bagno e prende la bustina contenente la droga, guardandosi attraverso lo specchio, osservando, insomma, la sé non-vista, la sé nello specchio, la sé che dopo qualche minuto deve scoppiare irosa contro il marito e la propria repressione sessuale, la sé interiore (ovvero la mente di Alice e non il corpo di Nicole Kidman, che è quello che abbiamo ammirato fino a quel momento).

(sia durante l’amplesso con Bill sia da sola, Alice si osserva allo specchio, è conscia di uno sguardo “altro”; Bill invece non si affida mai agli specchi – o, almeno, il suo sguardo non si osserva mai attraverso di essi -, e questo è il primo vero indizio della differenza psicologica tra i due personaggi… da questo punto di vista probabilmente, sin dal titolo, Eyes Wide Shut di tutti i film di Kubrick è quello che più esplicitamente parla dello sguardo cinematografico, che è comunque una tematica presente in moltissimi film del regista probabilmente a partire da Orizzonti di gloria)

L’attacco a Bill infatti è un’altra maniera con cui Alice si spoglia: dopo l’eliminazione delle barriere fisiche del corpo (i vestiti) c’è l’eliminazione delle barriere dell’anima, o meglio della mente, e così Alice finisce per attaccare un qualcosa che Bill non ha ancora davvero percepito, in quanto figura davvero superficiale e idiota di questo mondo di fallimento e apparenza; e in questo senso questa confessione erotica è il momento più sessuale di tutto il film, se davvero la narrazione del sesso è in un certo senso un superamento erotico del sesso a livello istintuale, come dice Žižek a riguardo sia di questo film sia di Persona (1966) di Ingmar Bergman. L’attacco sull’implicito devasta Bill perché Bill ha sempre vissuto nell’esplicito e non è, probabilmente, pronto ad un mondo come quello del cinema di Kubrick, un mondo del non-visto, o meglio del messo in sottofondo. Bill non è pronto ad essere Bill perché probabilmente rimane ancora, almeno all’inizio, un qualsiasi Tom Cruise: non può ancora essere una tragica figura umana per riassumere il dramma di una specie, perché la sua tragedia non è esplicitata. Lo sguardo perverso e spento di Bill verso una moglie mai così odiata e mai così sensuale si trasforma presto in uno sguardo di solo disprezzo, uno sguardo che nel frattempo crea e immagina cose non vissute, sogni e incubi erotici, immagini che si muovono a scatti perché non vere. Per la prima volta, forse, in tutta la sua vita immaginaria, Bill realizza l’osmosi tra la finzione cinematografica e la perversione dell’invisibile, l’immaginazione erotica, l’infedeltà che si palesa nella sua mente e che poi si palesa nei nostri occhi.

(campo-controcampo tra chi narra e chi ascolta, in due tra le scene più erotiche della storia del cinema – come dice Žižek -; le angolature tra chi narra e chi subisce la narrazione sono le stesse, con Tom Cruise/Bill e Liv Ullmann/Elisabeth che rimangono fermi a letto e Nicole Kidman/Alice e Bibi Andersson/Alma che invece vanno a giro per la stanza… entrambi film sul sesso, sull’apparenza, sul cinema, sugli attori, sulla Storia, e i nomi di Alice e Alma sono molto simili, ma se sia o no una scelta casuale probabilmente lo sa solo Kubrick)

Da qui alla famigerata scena della cerimonia, Kubrick ci tiene a mostrare agli spettatori una specie di carrellata di immagini facilmente ricollegabili al suo cinema, mischiandole tutte insieme per dare una specie di tocco postmoderno a questa favola d’amore e di odio prima che si trasformi ufficialmente in un incubo apocalittico. Ad esempio: l’uomo vecchio e morto che Bill visita subito dopo la confessione della moglie, subendo le avances di una donna in piena crisi di tristezza isterica, è immobile e statuario, steso al centro di un enorme letto come Dave alla fine di 2001. È ormai una figura ferma e morta, ha vissuto e ha subìto il mondo, come Kubrick che dopo poco il mondo lo avrebbe lasciato: e se Kubrick nel ’68 mostrava uno sguardo giovane alle prese con Dio e con la tecnologia, nel ’99 quello sguardo si spegne, ormai consacrato nella storia del cinema, e Dio (o qualsiasi cosa sia il Monolito: un alieno, uno schermo cinematografico…), di fronte a lui, è invisibile. In compenso, tuttavia, è visibile e tangibile a noi l’isteria innamorata della figlia, la cui vittima è Bill, che ancora si deve destreggiare in un mondo di cose esplicite e che tosto rifiuta la pseudo-seduzione per recarsi alla sua prossima tappa. Bill viene adescato da una giovane prostituta ma pure con lei rimane bloccato in questo mondo esplicito a tutto tondo e non riesce a mandare avanti nulla, non riesce ad accettare la natura fittizia del desiderio e quindi non riesce a mettere in atto (o in immagini) la passione sessuale. Va a trovare l’amico pianista Nick, che gli offre di andare a sentirlo suonare ad una strana cerimonia in una strana e lontana villa ad un evento misterioso. La parola d’ordine è “Fidelio” (nel romanzo di Schnitzler era “Danimarca”), un esplicito riferimento all’omonima opera lirica di Beethoven: insomma, torna pure Ludovico Van, ma qui la sua musica non è l’estasi dell’uomo (e con essa il piacere che la società vuole eliminare, come in Arancia Meccanica) bensì è un qualcosa che viene usato come chiave, con superficialità, per passare da un mondo all’altro, dal mondo reale al mondo cinematografico, dal mondo esplicito al mondo implicito, dal mondo freddo e pensieroso al mondo caldo, orgiastico, sciamanico. Il Fidelio peraltro è l’unica opera sui tradimenti di coppia del compositore morto a Vienna. Rimane una musica quindi densa di violenza, anche se la musica di Beethoven non è presente — ma il riferimento al compositore potrebbe anche essere un tributo a Gertrud (1964) di Carl Theodor Dreyer (un regista danese come la parola d’ordine del romanzo di Schnitzler), in cui Gustav fa a vedere il Fidelio. L’ultima tappa prima di recarsi alla cerimonia è il negozio di costumi, nel quale si incontrano almeno altri due film di Kubrick: la figlia del venditore di vestiti slavo è una minorenne promiscua, come Lolita (1962), ma in un film così denso di erotismo la freddezza in bianco e nero del film originale non ha senso e quindi la sessualizzazione del corpo-oggetto infantile/adolescenziale non è affidata allo spettatore e al fuori-campo, bensì è esplicitamente presente nell’inquadratura e negli sguardi della ragazza e di Bill; le persone a cui ha venduto il corpo, invece, sono asiatici, come i vietnamiti nemici del popolo americano in Full Metal Jacket (1987). Può sembrare, ad un primo sguardo, una lettura forzata, anche perché gli uomini sono giapponesi (comunque quindi appartenenti ad un paese che è stato in guerra con gli U.S.A.) ma bisogna ricordare un aspetto importante del precedente film di Kubrick: la battaglia tra U.S.A. e Vietnam lì è mostrata, in maniera in effetti un po’ nascosta forse, come una lotta profondamente sessuale, attraverso il machismo sconclusionato e parodistico degli sciocchi soldati che trattano la guerra come un gioco e che vedono le donne vietnamite come un oggetto sessuale. Il pre-finale tragico in cui il soldato Joker assassina il cecchino donna è il momento orgasmico della vita del soldato: la canna del fucile diventa un’estensione del membro maschile, e l’omicidio è una specie di drammatica presa di coscienza di Joker sugli aspetti disgustosi della guerra che lui tanto metteva in sottofondo rispetto alla propria esperienza. Un’uccisione dell’innocenza e dell’appeal sessuale. Ma a fine secolo tutto ciò scompare, la guerra finisce e nel negozio lo scontro sessuale tra due culture non è assolutamente tragico ma anzi viene normalizzato nonostante la sua naturale componente perversa.

(in Eyes Wide Shut l’autocitazionismo sfrenato è tutto fuorché un divertissement pretenzioso: queste figure barocche e surreali compongono un perfetto viaggio dantesco per Bill tra tentazioni sessuali e violente, tentazioni demoniache e filmiche che ripercorrono un’intera carriera di capolavori per poter giungere ad uno sguardo conclusivo a tutto tondo)

E comincia la cerimonia, la scena più lunga e famosa del film. Certo, si potrebbe passare molto tempo a parlare dei simbolismi sciamanici, religiosi e spirituali del rito, dai riferimenti al satanismo e al paganesimo fino alle maschere teatrali che sono parzialmente ispirate alle maschere greche e parzialmente a quelle veneziane, ma la cosa più importante forse rimane lo sguardo di Bill, fisso e chirurgico verso i corpi. Non vediamo cosa succede nella sua mente, non gli vediamo più neanche il volto attraverso la maschera. Vediamo solo la scenografia e l’orgasmica profondità di questi corpi tutti uguali, spersonalizzati, privati di un significato se non quello del puro piacere. La sessualizzazione è nel frattempo suadente, stordente e inquietante, e i ritmi della scena ricordano, in realtà, quelli della festa iniziale. Le due feste probabilmente sono due versioni della stessa identica realtà socio-politica: un mondo superiore (forse inesistente) che osserva con sguardo pornografico la realtà, una società segreta di “uomini potenti” che agiscono solamente in funzione fallica o erotica. Questa villa, circondata di quadri rinascimentali proprio come la casa di cui parlava l’ungherese che seduceva Alice, è un labirinto di spettatori e di attori, di registi e di burattini, di uomini e di donne, di persone dominanti e persone soppresse.

(l’orgia è mostrata, dopo il rito sciamanico, come una serie di piani sequenza a campo-controcampo in cui si alterna il punto di vista di Bill con l’immagine di Bill che osserva; non possiamo immaginarci la sua faccia oltre la maschera, possiamo solo subìre come lui la natura da spettatori pornografici di questo erotismo sconvolgente, che prima è solamente un atto saffico e poi coinvolge gli spettatori in ammucchiamenti eterosessuali – ma Bill continua a camminare, cercando di capire)

Bill viene poi giudicato e smascherato pubblicamente di fronte a tutti, e viene salvato da una donna, portata via da un uomo con la maschera da medico della peste; e forse non è un caso dunque che, dopo qualche scena, quando Bill cerca la prostituta con cui non è riuscito a far nulla, scopra che questa abbia contratto l’AIDS, una specie di “nuova” peste, piaga sessuale di fine secolo.

(lo smascheramento e il successivo salvataggio/sacrificio: Bill è al massimo della propria vulnerabilità, trattato come una vittima del mondo, sbeffeggiato di fronte ad una realtà che non può e che non potrà mai capire, unico vero volto in mezzo al teatro del potere)

Bill, spaesato da un mondo di persone che riescono a scindere in due una vita implicita e una vita esplicita (persone che dunque, usando termini di Kierkegaard, tengono perfettamente in equilibrio la vita estetica e la vita etica – e pure quella religiosa, la “fine del percorso” per il filosofo danese, solo che essa si manifesta in riti non convenzionali in cui probabilmente non ha senso scomodare parole cristiane come Fede e Carità), è finalmente smascherato. È finalmente pronto ad essere disperato e spaventato, e dunque a non poter nascondere il proprio io-interno: le emozioni da allontanare non sono più la gelosia per la moglie ed il desiderio sessuale verso l’altro, e anche se ci fossero sono comunque frenate da qualcos’altro, e questo qualcos’altro è la paura della morte; insomma, una paura che hanno tutti, una paura che, in determinate situazioni, è assolutamente razionale, e che, in altre, è comunque comprensibile considerata la caducità della vita umana e l’irreversibilità della nostra scomparsa. Tra obitori e bar che fanno risuonare il Fidelio di Beethoven, Bill sembra non poter abbandonare questa realtà tragica in cui si è ritrovato: la realtà umana. Nulla di nuovo, forse. Ma lui, fino ad allora, non era ancora stato umano, e questo è perché il personaggio cinematografico nasce con il trauma, con l’inizio di una storia (e dunque con la cerimonia), prima del trauma – “evento scatenante” o “turning point”, usando termini da sceneggiatura – il personaggio è solo apparenza, è solo una faccia, è solo l’attore. Che Kubrick ci voglia dunque dire che il personaggio cinematografico è più umano, negli occhi dello spettatore e del regista, dell’attore che lo interpreta, nonostante a livello fattuale è ovvio l’esatto opposto? Bill acquista umanità anche solo al suo ritorno a casa, quando la moglie gli fa una confessione disperata non troppo diversa da quella che gli ha fatto prima che uscisse di casa, ma stavolta non la accoglie con crudeltà vendicativa e odio, bensì si dispera con lei, si immedesima in quelle lacrime, è un marito affettuoso e non un idiota in balìa dell’immaginazione altrui. È finalmente vittima degli altri e non di sé stesso, il suo sguardo confuso e privo di profondità è ora uno sguardo intimorito.

(a osservare lo sguardo di Bill, sembra che non si sia neanche ripreso davvero da quello che gli sia successo, e che questo ricongiungimento emotivo con la moglie in realtà quasi scompaia di fronte a quello che ha visto – e che non ha compreso)

Il confronto con Ziegler, che gli spiega chi è chi e cosa è cosa, è una delle scene più enigmatiche del film per il semplice motivo che nulla che Ziegler dice può essere davvero dato per vero. Si può solo credere al fatto che lui era lì presente, sennò non saprebbe nulla di tutto ciò. Nick potrebbe essere morto, la ragazza trovata in obitorio potrebbe non essere assolutamente la ragazza che ha aiutato Bill. E, soprattutto, Alice sarebbe benissimo potuta essere lì alla cerimonia, invitata dall’ungherese che l’ha sedotta: e a questo punto forse il suo racconto dell’incubo erotico più che una storia di umiliazione poteva essere un monito intimidatorio, un avvertimento. L’orgia onirica raccontata da Alice parte dalla vittimizzazione di Bill di fronte ad un gruppo di persone in un enorme amplesso, ed è molto simile a quello che Bill ha in effetti vissuto la notte stessa. Quindi, forse, anche questo sporadico momento di unione emotiva tra i due potrebbe essere stato un qualcosa di finto, di costruito: la cerimonia era un palcoscenico, il sesso è cinema, Bill è spettatore e protagonista, noi siamo Bill. Noi siamo idioti che ci dobbiamo spaventare, e Ziegler (non a caso interpretato da Sidney Pollack, ovvero un regista, che come ogni regista in ogni proprio film si tramuta in un Dio che mostra i propri personaggi come i pupazzi del suo teatrino-cinema) è ciò che ci spaventa di più. La morte, la finzione, la possibilità che la finzione porti alla morte. Insomma, l’erotismo è allontanato, lasciato stare, e la paura della religione e del potere sono temi sicuramente presenti ma non più né meno della paura del cinema e di come esso può rispecchiare la realtà drammatica dei fatti, pur senza mostrarla realisticamente. E da questo punto di vista, Eyes Wide Shut è uno dei film più spaventosi mai girati, perché mette lo spettatore a contatto con la piattezza del proprio sé e con ciò che può agitare la nostra interiorità. Ci immedesimiamo con il più basso e stolto dei punti di vista, e siamo immersi in un’orgiastica eleganza natalizia i cui colori e le cui musiche diventano sempre più cupe.

(Ziegler/Sidney Pollack, in quanto figura pseudo-registica e superiore, osserva l’uomo; Bill, in quanto uomo, guarda nel vuoto, comprendendo finalmente la propria caducità)

La conclusione del film è iconica per quanto riguarda ciò. Bill è più calmo, ma comunque la paura sottocutanea di qualcosa di drammatico rimane nel suo sguardo che vaga, seguendo la moglie di cui non si fida – forse perché ha pensato quello che ho scritto qui sopra sul coinvolgimento di Alice nelle orge, cosa che nel film esplicitamente non viene detta mai. Seguono la figlia in un supermercato colorato e affollato e parlano di cosa dovrebbero fare. Decidono di rimanere insieme. Ma prima del campo-controcampo conclusivo, quello che si conclude con quel “fuck” come risposta alla domanda “cosa (dovremmo fare)?” (doppio significato: “fuck” nel senso di fare sesso e “fuck” nel senso di esclamazione dispregiativa, non dovremmo fare nulla, non c’è una conclusione; qualsiasi delle due cose sia, gli occhi rimangono chiusi, che sia per un orgasmo che allontana la mente o per una cecità nei confronti dei problemi umani), c’è un qualcosa di molto importante che succede in sottofondo. Bill e Alice parlano per due minuti senza rivolgere neanche uno sguardo alla loro bambina che, nell’inquadratura immediatamente precedente, si allontana, guardandosi indietro, andando verso due uomini anziani. Quei due uomini erano presenti alla festa degli Ziegler a inizio del film, anche lì in sottofondo, intorno ad una scala. Che, per vivere meglio, i due abbiano deciso di sacrificare in un modo o nell’altro la figlia ad una specie di potere superiore? Sarebbe strano che Kubrick non ci mostrasse neanche parzialmente questa scena, ma pare proprio che la bambina sia pronta ad essere abbandonata freddamente dai loro genitori, che forse ormai da questa esperienza sono rimasti completamente disumanizzati, persone di solo piacere. E quel “fuck” più che un amplesso intimo potrebbe implicare un’orgia nella villa dell’ungherese oppure un qualcosa di violento e liberatorio rispetto alla prole ormai abbandonata per qualche ragione. La grandezza di Kubrick sta anche in queste ambiguità e in questo enorme mistero, perché Eyes Wide Shut è un film enorme e multitematico, in cui ogni immagine rimane per essere ricordata, ma allo stesso tempo tutto sfugge, perché tutto è troppo, e alla fine ci si dimentica sempre qualcosa. Su ogni film di Kubrick dovrebbe essere scritto un libro che analizza scena per scena, e quindi una “recensione” (virgolette d’obbligo) come questa probabilmente non riesce ad essere completa come il libro sul film scritto da Simone Ciaruffoli né oggettiva come un ipotetico commento sul film da parte di Kubrick o di qualcuno che lo conosce bene. E quando tutto si perde, in effetti, forse bisogna riconnettersi a quest’ammirazione superficiale della grandezza, senza analizzare, semplicemente per innamorarsi delle immagini e dei corpi. O magari per allontanare la paura del cinema e del mondo che Kubrick vuole farci sentire in questo film, per cercare di eliminare il significato per vivere nel significante, alla fine di un secolo con il quale siamo stati abbandonati da uno dei più grandi registi che siano mai vissuti, se non il più geniale di tutti.

Nicola Settis