EXIL (2016), di Rithy Panh
Ancora una volta Rithy Panh cerca nella pura necessità della ricostruzione storica, lo spazio ideale (e doveroso) per costruire un film; Exil è un altro affresco smaccatamente autobiografico quanto doloroso, attraversato dal solito spirito (di)mostrativo e lievemente didattico dell’epopea drammatica della Kampuchea Democratica, e del suo leader Pol Pot. L’esilio è, appunto, la chiave di lettura quantomeno poetica, se non morale, di quest’opera forse minore ma comunque necessaria nel cercare di definire storicamente il quadro politico e sociale di una nazione portata alla deriva sul falso mito di una rivoluzione pura ed estrema, che vide nell’annientamento psicofisico di una buona parte della popolazione l’unico strumento ahimè possibile di conversione.
Nella storia della rappresentazione, come in quella di qualsiasi narrazione, l’esilio ha sempre acquistato (di diritto) il simbolo dell’impossibilità, il luogo in cui cantare i drammi personali attraverso la terra natia, fragile, abbandonata, lontana. Nei crismi dell’assenza, la presenza è lasciata all’anima che non può essere imprigionata e costretta a qualsiasi fuga. Così il Panh adolescente si rivela, incapsulato in continua sovraimpressione del suo/loro passato, in una ricostruzione astratta e placida, lenta nei movimenti e nelle attese, tempesta da segni a cui noi resta il codificarli. Quello che ritornerà ora nella moderna Cambogia è un miracolato, ostaggio del suo passato confinato in un presente occidentale, che cerca ogni giorno una traccia che possa giustificare le atrocità subite dal suo popolo, e allo stesso modo trova solo una possibile spiegazione sulla caducità di ogni possibile rivoluzione. Come se l’ideale davvero nulla potesse contro la deriva di sangue che gli uomini stessi devono perpetrare per la sua attuazione.