“Certo sono più sapiente io di quest’uomo, anche se poi, probabilmente, tutti e due non sappiamo proprio un bel niente; soltanto che lui crede di sapere e non sa nulla, mentre io, se non so niente, ne sono per lo meno convinto, perciò, un tantino di più ne so di costui, non fosse altro per il fatto che ciò che non so, nemmeno credo di saperlo.”
Platone, Apologia di Socrate
Frederick Wiseman continua la sua ricerca d’identità, democrazia e speranza n/dell’oggi in un’altra cattedrale della cultura. Dopo l’università californiana di (At) Berkeley e la National Gallery di Londra, ora è il momento della Public Library di New York. Ancora una volta pronto a scandagliare la complessità, l’ambiguità e l’umanità di una porzione del reale che non siamo abituati a conoscere, soprattutto nel dietro le quinte. Ancora una volta all’interno di una comunità umana sempre nuova, con l’ennesima struttura drammatica da creare al montaggio su un materiale espanso senza forma, su un’analisi costantemente incerta e parziale che lavora sul tempo e sulla propria sedimentazione. Dalla strutturazione vorticosa della vita nell’ateneo della west coast (fino alla deriva del/sul sistema cosmo), passando per la galleria londinese attraverso lo sguardo all’interno dei quadri esposti (e lì cercando la finzione stessa del reale come rappresentazione), Wiseman giunge con Ex Libris: New York Public Library, finalmente ospitato nel concorso principale di Venezia, alla biblioteca come momento fondante di civiltà e comprensione. Sempre di più, in Wiseman, è lo spazio dell’istituzione a declinare le forme del mondo, o almeno il luogo in cui ci sono gli strumenti di ingrandimento come di lettura di ciò che abbiamo intorno; quello che rotea intorno alla biblioteca è un mondo complesso e polimorfo, in cui ogni parte che viene osservata è sempre in funzione del tutto, in cui ogni frammento è elevato nella propria collettività e visto nel proprio interscambio concreto, in cui la figure costruiscono mattone dopo mattone un paesaggio in divenire che abita lo spazio d’esercizio, il luogo rappresentato, la realtà filtrata. E, come sempre, è lo stesso sistema a essere rimesso in discussione proprio nelle sue continue contraddizioni e nell’infinita possibilità di direzione che esso può intraprendere. Ma la discussione non ne può relativizzare l’esistenza, perché essenzialmente è lo stesso uomo che le crea e le gestisce (le istituzioni, intendiamoci), ed è allo stesso uomo (a tutti gli uomini, nella teoria) che queste istituzioni appartengono. “Ogni lettore, quando legge, legge se stesso. L’opera dello scrittore è soltanto una specie di strumento ottico che egli offre al lettore per permettergli di discernere quello che, senza libro, non avrebbe forse visto in sé stesso.” Questa frase di Proust potrebbe essere, in un certo senso, la guida possibile di questo viaggio in cui Wiseman (qui più che mai scrittore) pare ripercorrere le sue stesse tracce, verificando continuamente le proprie visioni, rimodulando l’approccio nei confronti di un sistema per ridiscuterne tutti gli altri. Un processo di sostanziale ricerca continua, infinita come potrebbe essere solo la tensione verso la conoscenza.
La New York Public Library ha una novantina di sedi sul territorio comunale (anche se solo in tre dei cinque quartieri: Bronx, Manhattan, Staten Island), rappresentando non solo un’istituzione pubblica, ma anche un enorme spazio utilizzabile per la (e dalla) comunità. Nella rete della moltitudine di persone che la abitano si può cercare di comprendere allo stesso modo l’evoluzione del milieu culturale di una delle capitali del mondo, come vedere il dramma di coloro che la città (e la società) in molti casi respinge. Una biblioteca dovrebbe essere un tempio di democrazia, uno spazio accessibile a tutti (e proprio su ciò vediamo una delle riunioni di direttivo più interessanti e complesse), un modello di inclusione che non deve occuparsi solo di memorialistica e archiviazione, ma diventare laboratorio vivo e dialettico di conoscenze interdisciplinari. In biblioteca (nella sede centrale di Manhattan) puoi incontrare intellettuali (Richard Dawkins come Edmund de Waal) e musicisti (Elvis Costello come Patti Smith), ma allo stesso tempo (nel Bronx) puoi cercare lavoro reclutato da pompieri e militari bramosi di convincere qualche disperato, dall’altro lato della città puoi imparare a conoscere i tuoi diritti da disabile (sempre a Manhattan), o ci puoi addirittura far crescere i tuoi figli (ad Harlem). Wiseman viaggia da una sede all’altra, segue le tracce di questo percorso, ne disegna una personalissima mappatura che si amplia continuamente, rendendola terribilmente metaforica e ampliando ancora più la visione sull’interazione tra comunità e territorio attraverso l’istituzione. La biblioteca dunque è un microcosmo che deve, anche controvoglia, dialogare con il cosmo. Il film è girato in tempi ancora lontani dall’incoronazione di Trump, ma risulta già come analisi fortemente politica (e spesso critica) sull’America di oggi e forse di domani. Se le biblioteche sono un presidio vivo di eguaglianza, scienza e pensiero, spesso la socializzazione e la trasversalità di questo sapere sono ancora lontani dall’essere totalmente compiuti. Perché, come insegna la storia del mondo occidentale di cui ogni archivio (anche il più misero) è custode, in ogni biblioteca è possibile leggere una straordinaria codifica sull’oggi attraverso un rapporto dialettico profondissimo tra educazione e conoscenza. La libertà deriva dalla comprensione dei fantasmi del razzismo come da quelli del capitalismo, del complesso rapporto tra islamismo radicale e schiavitù, delle differenze tra Marx e Fitzhugh come simbolo stesso di un pensiero critico (quasi radicale) che possa reinterpretare la realtà attraverso l’arte della ricerca. Ma la conservazione non basta, tanto meno la discriminante classista al sapere. In molte riunioni, e discussioni, interne emerge prepotente il dilemma tra pubblico e privato, quello sull’evoluzione tecnologica e sulla direzione che la biblioteca deve prendere per cercare di leggere, nel modo più ampio possibile, il futuro. Semplicemente perché la cultura è ciò che ci pone oltre il buio (quello digitale come quello analogico, quello gnoseologico come quello morale, e potremmo andare avanti all’infinito), e l’accessibilità ad essa è forse l’atto di resistenza più rivoluzionario che un’istituzione possa compiere.
Basterebbe pensare al titolo probabilmente (“Ex Libris”, letteralmente “dai libri”), una formula usata nel passato per indicare la proprietà dei volumi, ed espansa oggi anche a coloro che detengono il sapere. A partire da questo assunto, quest’ultima opera di Fred Wiseman è forse la più umanista, pronta quasi a riprendere le istanze di Erasmo sull’educazione libera e disinteressata, e soprattutto sul cittadino utile a una repubblica (a patto che anche essa sia utile), e allo stesso modo unità di pensiero critico ed autodeterminante. Perché una biblioteca non è solo il paradiso di Borges, la divinità di Eco o l’harem di Emerson, ma è più semplicemente uno spazio pulsante e formativo, un esperimento continuamente in divenire di formazione, e allo stesso tempo anch’esso in continua formazione. Bell Hooks, scrittrice e attivista afroamericana, sosteneva che la biblioteca pubblica fosse l’istituzione più sovversiva degli Stati Uniti, e oggi questa frase suona come sinistra quanto realistica. Proprio in una delle sedi del Bronx, a una lezione in cui partecipano quasi esclusivamente “negri”, si parla di consapevolezza, di quanto alle persone di colore sfugga la stessa comprensione della schiavitù, anche perché la narrazione storica spesso vive di omissioni. Ecco la sovversività, ecco il ribaltamento del rapporto di predicazione, ecco il luogo in cui (la biblioteca appunto) può avvenire l’emancipazione tramite la conoscenza e l’informazione. E il primo passo di lotta per l’affermazione dei propri diritti qual è se non la libertà di conoscere realmente le proprie radici, soprattutto se drammatiche? Anche per questo Ex Libris è quasi una summa dello straordinario e unico percorso di Wiseman, un work in progress infinito e costantemente incompleto, proprio come uno scaffale ancora vuoto che preannuncia i libri che verranno. Un dono, su cui davvero dovremmo riflettere. Nella crescente ottica di un transumanesimo (per non parlare del post) che si interroga sulle nuove potenzialità possibili per la generazione umana, il lavoro del documentarista di Boston è un monumento alla comprensione dell’umanità, nel suo farsi come nel proprio disfarsi, fatto di errori, traiettorie e possibilità. Un ritorno all’umano più puro ed incondizionato, vivo e vero, in una continua indagine piramidale che inizia mezzo secolo fa dalle istituzioni più difficili e problematiche (le carceri, i manicomi, le stazioni di polizia) fino a questi templi di civiltà. C’è una scena che più di tutte forse riesce a rendere tutto questo. Entriamo nella collezione di immagini della Public Library, un archivio infinito di significanti, aperto a tutti coloro vogliano prendere ispirazione, lavorare su una ricerca o unicamente vedere. Ed ecco che il cinema di Wiseman, nella sua completezza (non i montaggi, ma le decine di migliaia di ore girate in giro per il mondo) dovrebbe senza dubbio appartenere a quella raccolta, nella cartella d’archivio sotto l’etichetta dell’uomo in tutte le sfaccettature e interazioni possibili. Perché l’eredità che Frederick Wiseman ci sta lasciando è uno dei più importanti strumenti di comprensione dell’uomo e della società nell’intero Novecento. Che possa essere filosofia, politica o dialogo concreto, Wiseman è un uomo che ammette di non conoscere e che per questo vive di una ricerca drammaticamente necessaria, socratica fino al midollo. Il film si chiude con un incontro e un discorso sul metodo. Un’altra parola che racchiude dentro di sé un cosmo (prima dal greco e poi dal latino «ricerca, indagine, investigazione», ma soprattutto «il modo della ricerca»). De Wall parla davanti alla platea di Manhattan, ci dice come oramai sia estremamente più importante e ideologico il modo con cui viviamo e compiamo atti rispetto al risultato di ciò che facciamo. Sarà il metodo, in fondo, a dirci davvero chi siamo e chi potremmo essere. La camera di Wiseman è lì a girare, come se l’atto stesso di filmare rappresentasse il senso del proprio essere presente. Il cerchio, come sempre, si chiude in uno slancio di lucidità disarmante. Per capire e per capirsi.
Erik Negro