Negli ultimi anni, dal 2015 del fluviale Happy Hour al 2021 delle definitiva consacrazione internazionale con l’Oscar a Drive My Car, la carriera del cineasta nipponico Ryusuke Hamaguchi ha imboccato una vera e propria scalata al Paradiso, con progetti sempre più intensi e complessi, sia sotto il profilo stilistico che dei contenuti. La sua nuova opera in Concorso alla Mostra di Venezia 2023, Evil Does Not Exist (in Italia sarà distribuito come Il male non esiste, stesso titolo con cui nel 2020 era uscito There’s no evil dell’iraniano Mohammad Rasoulof, confidando che sia quasi impossibile sovrapporre due film così differenti), rappresenta un passo “di lato”, una variazione sul tema che conferma in toto l’approccio e le tematiche care all’artista originario dell’area metropolitana di Tokyo, allargandone però i confini. Nel suo film forse più “politico” – che per struttura sospesa fra concreto e simbolico/astratto (e, come vedremo, per assemblea cittadina) non può che ricordare gli “animali selvatici” di R.M.N. di Cristian Mungiu presentato oltre due anni fa nel medesimo concorso cannense che ospitò Drive my car – Hamaguchi si allontana dai miasmi e dal caos cittadino per approdare in un paesino, Mizubiki, della prefettura di Nagano, immerso tra boschi e montagne, mettendo in scena l’annoso conflitto tra un’umanità ancora legata ai ritmi della Natura e delle stagioni e la controparte cittadina (di cui, come si è già detto, fa parte egli stesso). Per sfruttare i fondi messi a disposizione dallo Stato per la ripresa post-Covid, un’azienda mette in cantiere il progetto per un glamping, sorta di campeggio di lusso e crasi, come si può facilmente evincere, tra le parole glamour e camping; un progetto costruito sciattamente a tavolino, senza tener conto della specificità della zona e delle varie problematiche e interessi dei suoi abitanti. In una delle sequenze iniziali si assiste ad una lunga riunione tra i rappresentanti dell’azienda appaltatrice e la popolazione locale: questi ultimi demoliscono punto per punto quello che gli viene superficialmente detto, mostrando di essere più interessati all’equilibrio della zona che ad un guadagno economico immediato ed effimero. Su tutti è Takumi (Hitoshi Omika), boscaiolo e tuttofare, a presentare le rimostranze più puntuali e dettagliate, un uomo che usa e rispetta la Natura in maniera sostenibile, senza alcun bisogno d’intellettualizzare troppo i suoi gesti adeguati e spontanei. Vive con la figlioletta Hana (Ryō Nishikawa), alla quale insegna a riconoscere le piante e ad individuare il percorso dei cervi; in un’escursione che vediamo nei primissimi minuti, il duo incontra un cervo morto, colpito da una pallottola di un cacciatore che ha pure lasciato lì la sua preda, in totale spregio e noncuranza. Hamaguchi avvolge la spettacolo naturale con morbide carrellate laterali alternate da dettagli in primo piano, facendo “parlare” il vento e lo stormire delle fronde; in una di queste carrellate vediamo Takumi camminare a passi faticosi nella neve, scomparire per un attimo “impallato” dagli alberi, per poi riemergere con la figlioletta in collo. Un passaggio temporale? Forse no, forse è solo il primo indizio della dimensione interiore e a-realistica della vicenda, un’estrinsecazione di un paesaggio emotivo. Il cerchio si chiuderà sul finale (di cui ci occuperemo più avanti), quando uno shock traumatico muterà di colpo clima e senso del film.
Quello del conflitto/incomunicabilità tra città e campagna è un tema persino abusato, nel cinema come in altre forme di racconto e rappresentazione, ma sempre foriero di nuovi contributi e aggiornamenti al passare delle epoche e delle mode e in virtù dei sempre più veloci progressi tecnici e tecnologici. Takumi sempre invece vivere fuori dal tempo, una sorta di bisnipote del Dersu Uzala kurosawiano in tempo di pace, armato solo della sua ascia che scaglia, con grande tecnica, sui ciocchi di legname che rappresentano il suo riscaldamento e il suo sostentamento. Gli abitanti della comunità non sono tutti autoctoni, ma la maggior parte delle famiglie si è insediata lì originariamente dopo la seconda guerra mondiale, ed ecco che la scelta del luogo appare fin da subito tutt’altro che casuale, un’ennesima testimonianza indiretta delle tragedie su cui si è formato il nuovo Giappone, tra deurbanizzazione forzata dalle città in macerie e lo spettro, insopprimibile, della Bomba ad aleggiare inevitabilmente anche sul capo delle nuove generazioni. Takumi è uno (degli ultimi?) eredi di una tradizione, di un popolo che conosce a menadito il territorio su cui/in cui vive, caratteristica che emerge ancora di più al paragone con la coppia di “cittadini” venuti ad illustrare il progetto glamping ed immediatamente conquistati dalla semplicità e dalla solidarietà interna alla comunità, espressioni di pensiero e cultura “debole”. La bravura di Hamaguchi di dare tridimensionalità assoluta anche a due personaggi che sembravano avere solo il ruolo di funzionari e di “villain” è una delle caratteristiche vincenti del progetto: in un viaggio in macchina, topos registico per un artista che non guida più da molti anni, si scoprono debolezze e aspirazioni frustrate di Mayuzumi (Ayaka Shibutani) e soprattutto di Takahashi (Ryūji Kosaka), con un passato da attore televisivo e riciclatosi con scarsa convinzione ad impiegato della ditta. La cultura “debole” viene inevitabilmente affascinata da quella “forte”, se le si lascia tempo e spazio per agire in profondità, ed ecco che Takahashi manifesta l’intenzione di abbandonare la città e rimanere a tagliar legna con Takumi, pensando erroneamente di comprendere tutto in poco tempo. Poco prima, all’interno della sopracitata riunione con gli abitanti, un anziano ha usato una semplice metafora per racchiudere in una sola frase l’intero senso dell’agire, umano e del Paese: chi sta a monte deve agire con responsabilità anche per quelli che stanno a valle, altrimenti la colpa di eventuali squilibri non potrà che ricadere su di lui. Nello specifico ci si riferisce al piazzamento di una fossa biologica per gli scarichi del campeggio che rischia di contaminare le falde acquifere che servono la montagna e la comunità, ma è facilmente comprensibile al solo riportarla il portato filosofico/esistenziale dell’appunto. Takahashi pagherà a caro prezzo l’illusione di poter comprendere la vita di montagna con la stessa velocità con cui si legge il libretto d’istruzioni di un elettrodomestico.
E arriviamo appunto al finale, che ha scatenato qui al Lido interessanti e infinite discussioni e dibattiti come oramai sempre più raramente accade, nell’immediato dell’uscita sala e nei giorni successivi; per un eccesso di scrupolo, invitiamo chi non vuole saperne nulla ad andare direttamente al prossimo capoverso. Hana, la figlia di Takumi, scompare improvvisamente, in seguito ad uno sparo che riecheggia nella boscaglia, destinato probabilmente ad un cervo. Dopo tante ricerche, il padre e Takahashi la ritrovano in una radura imbiancata, in compagnia di un cervo gravemente ferito. Nella ormai celeberrima riunione, abbiamo appreso che il passaggio dei cervi non avrebbe costituito un rischio per il campeggio, perché gli stessi attaccano solo se in pericolo o per difendere un cucciolo. Qui è rappresentato plasticamente proprio il caso limite: la bambina pericolosamente vicina ad un cervo ferito e al suo cucciolo, il padre qualche decina di metri insieme al suo accompagnatore, terrorizzati e incerti sul da farsi. Nel momento di pericolo, la ferinità di uomini e bestie immersi nell’ambiente inospitale non ha più nessuna differenza, per salvarsi occorre compiere scelte drastiche, e violente alla bisogna. Hamaguchi divide in due il campo di ripresa a 180 gradi, e mentre ci mostra due uomini che si azzuffano nella neve “nasconde” nel fuoricampo tutto il resto. Il cervo non c’è più, la bambina è gravemente ferita, il cittadino Takahashi ha pagato carissimo il suo errore di valutazione e il suo pressapochismo. Non rimane altro che vagare nel bosco, di notte, disperati ed affannati, con la luna piena fredda e incombente ad osservare.
Da quella che appariva una semplice variazione sul tema, un film “di respiro” dopo il monumentale predecessore, ci ritroviamo ad aver visto l’ennesimo capitolo importante nella carriera di quello che possiamo ormai definire un giovane (è nato nel 1978) maestro, capace di mantenere ben salde le redini del suo percorso autoriale anche quando si esprime in contesti non usuali. Partito inizialmente come progetto di videoarte atta ad illustrare il nuovo lavoro della compositrice Eiko Ishibashi, è diventato in corso d’opera un lungometraggio vero e proprio, con Hamaguchi completamente conquistato, e come dargli torto, dal materiale ottenuto dalle riprese naturalistiche. Una dimensione ulteriore, dunque, per un cinema già tra i più importanti dell’ultimo decennio, e che ammonisce in primis anche se stesso: non bisogna “usare” e sfruttare troppo un contesto alieno di cui non si conoscono a fondo le caratteristiche, ma entrarci in punta di piedi e pronti più all’ascolto che all’affermazione. Un assunto adattabile a più contesti, nel cinema come nella vita.
Donato D’Elia